The man who skied the world
365 di sci, toccando la neve ogni singolo giorno in 5 diversi continenti. La storia di una passione smisurata e di un amore che ha fatto il giro del mondo e si è interrotto a La Grave
Nicola Busca
Era il novembre del 1951 e Sir Hugh Beaver (al tempo Presidente del birrificio Guinness) stava prendendo parte a una battuta di caccia assieme ad alcuni amici lungo le rive del fiume Stanley, in Irlanda. Dopo aver mancato un piviere dorato (un uccello che vive nelle brughiere del Nord Europa e che in inverno migra anche in Italia), Beaver iniziò a chiedersi, e a chiedere ai suoi compagni di giornata, quale fosse il volatile più veloce del continente: se il fortunato piviere appena mancato oppure, al contrario, la pernice rossa. La discussione proseguì oltre, e nemmeno al pub nel quale si incontravano alla sera per bere qualche pinta si riuscì a trovare una soluzione all’interrogativo posto da Beaver.
Il birraio era anche conscio che, oltre a quello del piviere dorato, molti altri problemi e record tormentavano le serate un po’ alticce dei ragazzi e dei lord irlandesi. Un fatto, quest’ultimo, dovuto anche alla mancanza di libri sui quali verificare alcune tipologie di curiosità e notizie. Per questo motivo, Beaver decise di avvalersi del contributo di Norris e Ross McWhirter, due giornalisti sportivi che al tempo si occupavano della rubrica “Facts and figures” per il giornale londinese Fleet Street. E nell’agosto del 1955, a quasi quattro anni di distanza dalla querelle sul piviere, Beaver pubblicò quello che sarebbe diventato non soltanto un caso editoriale, ma un’istituzione mondiale per l’assegnazione di riconoscimenti e premi, ovvero il «Guinness Book of Records».
Da quell’anno in avanti, dati e stramberie di ogni genere sono stati registrati nelle pagine di uno dei libri più venduti di sempre e, in un universo di curiosità e prove al limite dell’incredibile, anche lo sci ha spesso avuto una finestra a sé dedicata. Per indicare, di volta in volta, l’uomo e la donna più veloci su un paio di sci, il fakie più veloce di sempre, il salto più lungo e così via.
Tra queste imprese, esattamente venti anni fa – ovvero nel 1994 – il giornalista inglese Arnie Wilson e la tour operator francese Lucette Richaud (sua compagna) scrissero una pagina incredibile della storia dello sci. Arnie e “Lucy” sciarono tutti i 365 giorni dell’anno, su quattro continenti differenti e visitando 240 stazioni di sci differenti. Partirono il 1° gennaio dagli Stati Uniti (da Jackson Hole, Wyoming), per poi spostarsi in Europa a metà marzo, proseguire in India e Giappone a metà maggio, e quindi di nuovo negli Stati Uniti (a Mammoth Mountain). A quel punto il viaggio “deviò” ancora una volta sul Vecchio Continente (per un po’ di sci estivo sui ghiacciai), ritornò in America (del Sud questa volta) e poi – a inizio agosto – prese la rotta della Nuova Zelanda e dell’Australia. Da metà ottobre, Arnie e Lucy erano di nuovo negli Stati Uniti, dove conclusero la loro impresa da Guinness esattamente laddove l’avevano iniziata, a Jackson Hole, in un bagno di folla ed entusiasmo.
Un viaggio non soltanto estenuante da un punto di vista fisico e mentale (sarebbe bastata una foratura o un volo cancellato per far saltare tutto il meccanismo), ma una vera e propria impresa anche solo a livello organizzativo. «Inviammo migliaia di lettere (scritte a mano ovviamente: al tempo l’e-mail, per usare un eufemismo, era decisamente rudimentale, ndr) per cercare sponsorizzazioni e organizzare il nostro tragitto giorno dopo giorno». Già qui sta una delle trovate che a prima vista avrebbe dovuto complicare, e non di poco, il viaggio di Arnie e Lucy: «per ottenere il massimo aiuto dai comprensori sciistici (e quindi avere ski pass e alloggiamento gratis o a prezzi ridotti), inizialmente volevamo cambiare località ogni giorno. E anche se nel corso dell’anno rivedemmo i piani e modificammo in parte quanto era stato stabilito a tavolino, l’idea di muoversi spesso tra i comprensori rimase alla base del nostro viaggio».
Già, perché anche se al tempo Arnie scriveva da diversi anni di argomenti legati allo sci per il quotidiano britannico Financial Times, il giornale gli concesse “soltanto” una rubrica settimanale dove raccontare la sua impresa (oltre agli articoli di sci generici che avrebbe comunque dovuto scrivere secondo le richieste della redazione). Tutto il viaggio avrebbe dovuto essere finanziato e coperto di tasca propria. «I mesi della preparazione furono pazzeschi – racconta Arnie –. Ogni giorno controllavamo la buca delle lettere nella speranza che qualcuno avesse risposto alla nostra richiesta fondi. Non ti dico la gioia quando trovammo quelle positive dell’American Airlines e di Air New Zealand che ci offrivano i voli gratuiti, o dell’azienda Ski + Rock che ci metteva a disposizione l’attrezzatura sciistica in tutto il mondo, e quella di Avis che ci concedeva l’uso gratuito delle macchine per gli spostamenti su terra. O, ancora, quella dei comprensori di Breckenbridge, Keystone e Copper Mountain (tutti e tre sotto all’unico nome di Ski the Summit) che credettero così tanto nel nostro progetto tanto da finanziarlo per totale di 25 mila dollari. A ben vedere, quello fu il momento in cui capimmo che saremmo davvero partiti per questa pazzia».
Ma come nascono per davvero idee di questo tipo? «Assolutamente a caso – aggiunge Arnie – e seguono da altri eventi in maniera incontrollata. Io avevo ripreso a sciare nel 1986, a 30 anni (aveva iniziato a 16, ndr), perché il redattore del Financial Times mi aveva chiesto di seguire un viaggio stampa a Saas Fee. Dopo anni di esperienza in questo campo, successivamente la rivista Vogue mi commissionò un reportage nel quale dovevo immaginare (soltanto immaginare) di sciare ogni mese dell’anno. Mi ci volle davvero poco per scriverlo: ero già stato a sciare in tutti i continenti e sapevo esattamente dove e quando trovare le condizioni di neve ottimali in ogni periodo dell’anno». Un’illuminazione improvvisa ha poi fatto il resto: «se è possibile sciare ogni mese, allora deve essere possibile sciare ogni singolo giorno. Lucy, ti va di partire per questa avventura con me?». Lei, una tour operator rigorosa e di grande esperienza, conosciuta proprio durante uno dei viaggi sulle Alpi, non ci pensò due volte e rispose ad Arnie con semplicità: «era proprio quello che stavo cercando».
E così fu. Il 1° gennaio del 1994 Arnie e Lucy sciarono a Jackson Hole con questo folle primato da scrivere nel Guinness davanti a sé. Avrebbero dovuto sciare ogni giorno dell’anno, estate e inverno, autunno e primavera, con la pioggia e con la neve, con il sole e con la nebbia, con la febbre e – addirittura – il giorno dopo un’operazione (Arnie dovette risolvere un problema alla vescica e per tre giorni sciò con il catetere).
Tutto era stato programmato nel dettaglio, e – anche per una buona dose di fortuna – la macchina organizzativa funzionò in maniera perfetta. Momenti di tensione compresi.
Una delle situazioni più delicate, che mise alla prova il progetto ma lo stesso rapporto di coppia tra Arnie e Lucy si presentò in estate, mentre la coppia stava sciando in Sudamerica, nelle stazioni più meridionali della Patagonia a cavallo tra Cile e Argentina. «Al tempo – racconta Arnie – non si poteva passare dal Cile all’Argentina con macchine noleggiate, non chiedermi il perché, e anche adesso lo si può fare soltanto in un senso solo (dall’Argentina al Cile, ma non viceversa). Un nostro amico ci prestò quindi un pick-up russo per poterci muovere tra i due stati. La macchina era messa decisamente male, ripetutamente ci dava problemi e spesso ci piantava in asso lungo la strada. Lucy iniziò a perdere la pazienza, perché i continui contrattempi mettevano a repentaglio la serrata tabella di marcia».
E un bel giorno l’incubo si materializzò per davvero: la jeep lasciò definitivamente a piedi la coppia a metà strada tra la località argentina di San Carlos de Bariloche e quella cilena di Las Arauarias. «Di solito, per evitare contrattempi – racconta Arnie – cercavamo di sciare alla mattina e viaggiare nel pomeriggio. Quel giorno, visti i più di 500 chilometri di spostamento e le condizioni del nostro mezzo di trasporto, decidemmo di partire il prima possibile». La scelta fu azzeccata, perché nonostante il problema della jeep, un viaggio in autostop lungo più di 400 chilometri (4 passaggi differenti con 13 bagagli, attrezzatura da sci esclusa), Arnie e Lucy riuscirono ad arrivare in Cile in tempo. E a fine giornata, poco prima della mezzanotte, sciarono su di una lingua di neve in cima ad un vulcano, illuminati dalle sole luci di un fuoristrada. «Fu una delle giornate più difficili – ricorda il giornalista inglese –, alla fine della quale ci bastò soltanto uno sguardo e un abbraccio per superare tutti i momenti di tensione che avevamo passato in quella settimana».
Momenti come questi a parte – che in un anno possono essere davvero tanti – la fortuna fu dalla parte di Arnie e Lucy. Nel gennaio del ’94, dopo Jackson Hole, la coppia sciò in 25 stazioni statunitensi e canadesi (in Idaho, Oregon, California, Nevada, Washinghton, British Columbia e Alberta); in altre 23 in febbraio (in Montana, Wisconsin, Illinois, Kentucky, Tennesse e Alabama) e in 48 (spalmate tra Stati Uniti, Austria, Italia e Germania) nel solo mese di marzo. Proprio il trasferimento dall’America all’Europa è stato uno di quei momenti che da soli varrebbero un record. «Al mattino sciammo nella stazione di Cortina, a due ore di macchina da New York (sì, avete letto bene, ndr), il pomeriggio prendemmo un volo dal JFK diretto a Monaco di Baviera e la mattina seguente eravamo già sulle piste di Kitzbühel».
Il pellegrinaggio europeo andò avanti fino alla metà di maggio: in totale, sul diario usato da Arnie e Lucy per conservare gli ski pass e i dati della spedizione, si contano 57 stazioni diverse tra aprile e maggio. Mentre il trasferimento dalla Svizzera all’India, ancora una volta, è uno dei momenti epici di tutto il progetto: «il volo da Ginevra per Nuova Delhi (via Roma) partiva alle 15:15, e dopo 10 ore e mezza di volo (compresi i 75 minuti di scalo nella capitale italiana) ci avrebbe fatto atterrare all’aeroporto Indira Gandhi alle 6:15 del mattino del giorno seguente». La neve, però, era ancora lontana. «Il nostro obiettivo era al nord del paese, nel Manali, ai piedi dell’Hymalaya. Atterrammo a Bunthar (500 chilometri a Nord di Delhi) soltanto alle 3 del pomeriggio, con 4 ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia. Le nostre speranze erano ridotte e un lumicino». Ma nonostante un viaggio turbolento tra fango, sterrati, buche e – ancora una volta – una jeep che lasciava poche speranze, anche in quell’occasione, Arnie e Lucy riuscirono a sciare su di una striscia di neve pochi minuti prima della mezzanotte. «Non sciammo molto – ammette Arnie – ma tanto bastava per rimanere in piedi con il l’impresa».
I successivi “grandi trasferimenti”, rispetto a quello dall’Europa all’Asia, furono decisamente “meno complicati”. Il primo, da Delhi a Tokyo (con sciata in India al mattino, aereo alle 18:30, atterraggio nella capitale giapponese alle 8:00 del mattino dopo e sciata nello Ski Dome), portò Arnie e Lucy a sciare in 3 differenti stazioni nipponiche; mentre il secondo (da Tokyo a Los Angeles) li riportò sul suolo Americano. Cinque mesi dopo l’inizio del viaggio, la coppia aveva già percorso il giro del Mondo. «Partimmo alle 17:40 dall’aeroporto di Tokyo – ricorda Arnie –. Grazie anche alla Linea internazionale del cambio di data (dove le ore, nell’arco di un amen, passano dal fuso +12 a quello -12 rispetto a Greenwich, ndr) guadagnammo diverso tempo. Il tutto era comunque lecito: anche George Francis Train, nel suo viaggio intorno al Mondo in 80 giorni, utilizzò questo “stratagemma” per guadagnare un po’ di tempo». Tempo che servì ad Arnie e Lucy per recuperare quello che avrebbero perso negli aeroporti statunitensi: «avendo i voli gratuiti con American Airlines, arrivati a Seattle da Tokyo, dovemmo prendere prima un aereo per Chicago, e poi un secondo diretto in California (più volte furono costretti al passaggio da Chicago per motivi di sponsor). Ma nonostante tutto, anche quel giorno riuscimmo di nuovo a sciare a Mammoth Mountain entro le 24 ore dall’ultima sciata in Giappone».
Da qui in poi, il secondo giro del mondo sugli sci di Arnie e Lucy mirò nuovamente verso l’Europa (dove la coppia sciò sui ghiacciai austriaci, italiani, svizzeri e francesi fino alla metà di maggio) per poi dirigersi in Sudamerica. Ma non senza aver prima sciato a Mammoth. «Oltre ad essere una scelta legata alle compagnie aeree, la stazione californiana – a 2 ore dall’aeroporto di Los Angeles – era comodissima per i trasferimenti intercontinentali».
«Tuttavia – prosegue Arnie – le Ande furono le montagne che in assoluto preferii nel mio viaggio. Ci restammo due mesi fino alla metà di agosto».
Ma il 22 di quel mese fu il giorno che rischiò di far saltare il banco. Il trasferimento dal Sudamerica alla Nuova Zelanda, infatti, comportava nuovamente il passaggio della linea del cambio di data. Il problema, però, era che in quest’occasione Arnie e Lucy dovettero percorrerla nella direzione più sfavorevole, perdendo quasi un intero giorno in aereo.
«Sciammo in Cile al mattino (a Chapa Verde), dopodiché prendemmo il volo delle 18:00 di domenica sera in partenza da Santiago. Dopo un primo scalo sull’Isola di Pasqua, prendemmo un altro aereo che ci portò a Tahiti: da qui proseguimmo per Auckland dove, dopo un totale di 15 ore di volo, atterrammo alle 7:00 del martedì. Ci vollero altre 5 ore di macchina per raggiungere la stazione sciistica più vicina, quella di Whakapapa, e poter nuovamente sciare. È vero, sulla carta avevamo perso un giorno intero, ma avevamo comunque sciato entro le 24 ore di orologio dall’ultima volta. E per toglierci ogni dubbio, decidemmo comunque di sciare un giorno extra il 1° gennaio del ‘95».
Dopo il trasferimento problematico dal Sudamerica alla Nuova Zelanda, il viaggio fu quasi tutto in discesa: «rimanemmo nell’emisfero australe fino a fine ottobre, sciando in Nuova Zelanda e Australia. Dopo la consueta sciata di benvenuto negli States a Mammoth, davanti a noi ci aspettavano gli ultimi due mesi di avventura. Che, per la cronaca, furono fantastici perché stavamo realizzando quello che ci accingevamo a concludere di lì a poco».
E la tappa finale, a Jackson Hole, non poteva che essere un trionfo. Arnie e Lucy vennero accolti come il Re e la Regina delle Nevi. In un anno avevano sciato in 240 stazioni di sci disseminate in 4 continenti su 4.165 piste differenti. Avevano percorso 5.885 chilometri sci ai piedi (misurati con un rudimentale rilevatore attaccato agli sci) per un totale di 1 milione 263 mila 243 metri di dislivello: qualcosa come 142 Monti Everest sciati nell’arco di un anno. E poi, ancora, 54 mila chilometri in macchina e 185 mila chilometri percorsi in aeroplano, 178 cadute sugli sci per Arnie, 180 per Lucy. Un’impresa documentata così nel dettaglio e con così tante prove (il loro diario di viaggio è una vera e propria Bibbia per gli appassionati di sci) che non poté non entrare di diritto nel Guinness World Record e nella storia dello sci.
Tuttavia, la vita è strana e segue percorsi tutti suoi. Quando dà tanto da una parte, per una strana e incomprensibile legge della compensazione, la stessa forza irrazionale che governa il mondo esige altrettanto dall’altra.
È venerdì 6 aprile 1995, una giornata serena, senza nuvole, e temperature primaverili. Chi non conosce La Grave, almeno per l’imponenza delle cime che comprimono la stazione sciistica francese in fondo a una stretta valle, può immaginarsela come una piccola e rustica Chamonix. Le condizioni sono semplicemente fantastiche. Un gruppo di amici ride e scherza come sempre, si ferma a pranzo in uno chalet e poi riprende a sciare nel pomeriggio. Una giornata come tante altre, da godere nella sua purezza. Arnie e Lucy fanno parte di quel gruppo. Sono passati solo tre mesi dalla fine del loro viaggio intorno al mondo.
Prima dell’ultimo canalino della giornata, che avrebbe riportato gli amici in paese, Lucie e Arnie si scambiano un ultimo sguardo. Lui, un po’ per rassicurarla e un po’ per darle appuntamento in fondo alla discesa, le sorride. Il passaggio è abbastanza ripido, con gobbe e neve in trasformazione. Niente al di sopra delle possibilità di Lucy, la Regina dello sci, che ha sciato tutti i giorni dell’anno in condizioni peggiori e su passaggi più delicati. Tuttavia, quando l’appuntamento con la sorte è segnato, non c’è più nulla che possa rinviarlo.
Arnie arriva in fondo al canalino e si volta. Capisce subito la drammaticità della situazione. Lucy e Peter, l’altro amico con il quale stavano scendendo a valle, stanno cadendo rovinosamente, sbattendo ripetutamente contro le rocce ai fianchi del canale. Arnie ha esperienza, e sa che le 180 cadute in giro per il mondo di Lucy, finite in grandi risate e un appunto sul diario di viaggio, non sono nulla in confronto a quanto sta assistendo. Questa, infatti, potrebbe davvero essere l’ultima caduta di Lucy, quella fatale.
Olivier, il quarto amico del gruppo sceso poco dopo Arnie, tenta di opporsi allo schianto con il proprio corpo. È un tentativo disperato che finisce invano.
Un ulteriore istinto viscerale spinge Arnie a fare altrettanto: anche lui si scaglia verso Lucy cercando di bloccarne l’inesorabile scivolata. Riesce a stringerla con le braccia attorno ai fianchi, ma purtroppo – in un ultimo triste abbraccio – la coppia non si ferma e prosegue rovinosamente verso il basso. La frizione della neve e l’alta velocità rimuovono la pelle dal braccio destro di Arnie, che ancora oggi porta su di sé i segni di quel giorno. Lucy, però, ha pagato il prezzo più alto e Arnie lo capisce subito.
«Lucy? Lucy ti prego, non morire». Sono le ultime parole che Arnie pronunciò alla sua amata, pochi istanti prima che i paramedici la portassero d’urgenza all’ospedale di Grenoble. Non ci fu nulla da fare. Lucette Richaud morì a causa dei traumi riportati nella caduta.
E così, anche quell’impresa fantastica di sciare ogni giorno dell’anno, morì – in parte – con lei, e molti non ebbero il tempo di conoscere il coraggio, l’amore e il pericolo che sta dietro all’incredibile impresa di Arnie e Lucy.
Arnie, successivamente, in ricordo del suo amore e di quello che fecero assieme, scrisse un libro, «Tears in the Snow» («Lacrime sulla neve»), una toccante testimonianza la cui prefazione è scritta da Clint Eastwood. Uno dei tanti personaggi famosi che nel 1994 incontrò la coppia sulle piste da sci americane, ma uno dei pochi che a distanza di tempo si interessò alla loro storia e volle scrivere una pagina in ricordo di Lucy.
«Essendo io stesso appassionato di sci, ho pensato: che impresa! Questi due esploreranno piste che io non sapevo nemmeno esistessero. Ero particolarmente interessato a sentire da Arnie delle condizioni di neve che avrebbero trovato in Sud America, perché il Cile era uno dei posti nei quali avevo da sempre sognato di sciare. Ci siamo stretti la mano e gli ho augurato buona fortuna. Molto dopo, fui informato di quello che gli successe. Di come trionfarono nel loro progetto, e di come quel trionfo si tramutò in un’incredibile tragedia della specie più crudele di tutte. La storia di Arnie e Lucy è una di quelle che trovo al tempo incoraggiante e straziante. Penso che anche voi la guarderete in questo modo».