Stress e performance nello sci alpino: un modello – 1ª parte
Nello sci alpino sono molti gli atleti, in prevalenza professionisti, che si orientano verso tecniche e strumenti finalizzati al monitoraggio dello stress organico, sia a livello neuromuscolare, che metabolico e cardiovascolare.
Per fare un esempio la variabilità cardiaca (HRV, Heart Rate Variability), ossia quella tecnica che sfrutta la misurazione di alcuni parametri del battito del cuore per fornire informazioni sullo stato di benessere dell’atleta, prevenendo stati di affaticamento (overreaching e overtraining) o burn-out.
L’aspetto centrale del ragionamento riguarda comunque la disponibilità delle strategie, ossia la loro immediatezza, e la connessine di queste con i rispettivi livelli di stress, con la loro attendibilità.
Abbiamo così due evidenze:
-
minore è il livello di stress, più immediata e disponibile sarà la strategia per ritornare ad essere performanti, più alto è il livello di stress, minore sarà questa disponibilità: aumentano i tempi di latenza necessari ad organizzare adattamenti positivi alle richieste ambientali;
-
l’impegno richiesto per ridurre il livello di stress mediante tecniche, tempi di recupero o altro, sarà direttamente proporzionale alla percezione organica dello stress: maggiore è tale percezione, maggiore sarà il dispendio energetico richiesto per ristabilire equilibri organici, e viceversa.
Nello sci alpino, in quanto sport di situazione, cioè in quanto sport in cui l’esito dell’azione, quindi il risultato, non dipende esclusivamente dal gesto tecnico e dalla prestazione fisica, ma dalla capacità di trovare le giuste risposte di adattamento a stimoli diversi, gli stressor possono sia provenire dal mondo esterno, che da processi mentali interni.
Inoltre lo sci alpino è uno sport per molti aspetti contro-intuitivo, che non rispecchia i procedimenti e i meccanismi logici del ragionamento e anzi tende a scalzarli, a sovvertirli e richiede risposte, soluzioni anche tecniche non lineari.
Esige, se non nell’insegnamento di base certamente nelle fasi di transizione al professionismo e nel professionismo, un pensiero divergente, più che convergente; ossia un pensiero fluido, flessibile, ancorché concreto, capace di produrre risposte che siano allo stesso tempo inusuali ed efficaci in relazione ad un determinato compito o problema.
Nonostante l’esperienza, l’allenamento e la capacità dei tecnici di riprodurre e codificare le principali situazioni che durante una gara possono presentarsi siano un valido aiuto per gli atleti, l’elaborazione personale e la lettura dei fattori potenzialmente destabilizzanti (degli stressor) rimane la cosa più efficace.
In altre parole, non basta lavorare all’acquisizione di automatismi, che sempre inducono una certa meccanicità dell’azione, ma, come dimostra l’eccellenza, c’è una zona oltre l’automatismo dove consapevolezza, controllo, volontà, producono i loro effetti e fanno la differenza.
L’approccio critico alla disciplina è quindi punto di partenza, cioè obiettivo del giovane, e punto d’arrivo dell’atleta professionista, una volta apprese una serie ampia di risposte adattive e soluzioni tecniche (automatismi) a stimoli interni, esterni o a variabili di contesto.
Lo stress: una definizione
Nel nostro quarto appuntamento stagionale, titolato Lo sciatore “potente” 2: un profilo, al quale rimando, abbiamo già fatto riferimento alla relazione tra stress e performance, affermando che: il punto non sembra essere quello di eliminare i fattori di stress che caratterizzano la pratica agonistica, ma di depotenziare comportamenti, situazioni, capaci altrimenti di drenare risorse che permettono all’atleta di costruire scenari positivi.
In altri termini, la pratica agonistica, rispetto a quella amatoriale, prevede, a qualsiasi livello, la necessità di sottoporsi a delle regole, e ad accettare la competizione con se stessi e gli avversari; il concetto di agonismo, che ricordiamo derivare dal greco ágonismós, “lotta”, è quindi prioritario nei confronti dell’attività fisica e prevede, da parte dell’atleta, l’assunzione di modalità adattive qualitativamente diverse da quelle usuali.
Infatti lo stress, nella sua definizione originaria (H. Selye, 1956), è di fatto la reazione adattiva di un organismo stimolato da fattori esterni. Stress è indifferentemente la risposta a un eccesso o a una mancanza di stimolazioni rispetto a un livello ottimale, al quale corrisponde il miglior funzionamento dell’intero organismo.
Ciò significa che ogni volta che sottopongo corpo e mente a un cambiamento di stato, a una stimolazione esterna in eccesso o in difetto (!), s’innesca un processo di adattamento, più o meno funzionale, finalizzato a ristabilire equilibri in qualche modo compromessi.
La reazione del nostro organismo alle pressioni ambientali e/o emotive, si articola in fasi che vanno a generare un sistema o sindrome generale di adattamento (SGA) così articolato:
-
Allarme a un possibile pericolo o a un cambiamento al quale dover fare fronte (Shock e contro-Shock);
-
Resistenza al pericolo e/o tentativi di fronteggiare il cambiamento (resistenza al cambiamento);
-
Fase di esaurimento, in termini di coazione ma anche energetica, quando lo stimolo stressogeno è venuto meno, o quando la fase di resistenza è oltremodo protratta.
Il primo elemento che deriviamo da questa nostra analisi, è che lo stress è un fattore inevitabile e costitutivo della vita stessa, in qualche modo “neutro”, che può assumere connotazioni diverse, in relazioni al cambiamento che ci viene richiesto e alla percezione che dell’evento in questione noi abbiamo; parliamo infatti di “stress negativo” o distress, e di “stress positivo” o eustress.
Discrimina le due forme l’efficacia e la qualità della reazione adattiva che ne consegue: saranno quindi i risultati, i comportamenti, a permetterci di comprendere, come atleti o persone, se il processo di adattamento è andato a buon fine e se lo stress percepito si connota come “positivo” o “negativo”.
Stress e infortuni
Le ricerche più recenti stanno progressivamente dimostrando la componente multifattoriale degli infortuni sportivi (Lysens, de Weerdt e Nieuwboer, 1991; Williams, 2001): ormai risulta accettato il fatto che alcuni fattori di rischio, anche molto diversi fra loro, interagiscano nel processo di genesi degli infortuni sportivi.
Questo filone di ricerca sostiene un’idea ormai generalmente accettata di come si possano distinguere due macro tipologie di fattori di rischio, strettamente interconnesse e riferite a: 1) cause estrinseche, legate al tipo di sport e di attività motoria svolta, al modo in cui è praticata, ai fattori di contesto, all’equipaggiamento, etc.; 2)cause intrinseche, riferite alle caratteristiche personali, tanto fisiche quanto mentali, dell’atleta infortunato.
Ciò che non è ancora chiaro, comunque, è come alcuni fattori fisici e psicologici, o combinazioni fra questi, possano predisporre maggiormente alcuni atleti ad un più alto rischio di infortuni sportivi. Sono infatti ancora pochi gli studi dedicati all’analisi della vulnerabilità agli infortuni (modelli di pre-injury vulnerability), che consentono di predire le cause degli infortuni sportivi e di contribuire, così, allo sviluppo di strategie e di interventi di prevenzione sempre più efficaci (Johnson, 2007).
Gli psicologi dello sport Jean Williams e Mark Andersen (1988) hanno sviluppato, e successivamente rivisto (1998), quello che è considerato il più influente modello teorico negli studi psicosociali sugli infortuni sportivi, il cosiddetto Stress- Injury model, contribuendo a chiarire in questa cornice il ruolo che alcune variabili psicosociali giocano nel processo di infortunio sportivo.
Questo modello sostiene come la relazione fra infortuni sportivi e variabili psicosociali sia mediata primariamente dalla percezione e dalle risposte allo stress, tanto di tipo cognitivo quanto in termini di cambiamenti fisiologici e attentivi (Weinberg e Gould, 2007): gli atleti che tendono ad esacerbare le risposte allo stress (per esempio, gli atleti e le persone che hanno una lunga esperienza nella percezione di stressor e scarse risorse per fronteggiare lo stress o coping) sono quelli che, quando sottoposti ad una situazione atletica stressante, con maggiore frequenza valuteranno il contesto come tale e che esibiranno, di conseguenza, una maggiore attivazione fisiologica ed una più evidente compromissione degli aspetti attentivi (Johnson, 2007).
Tensione muscolare, distraibilità e restringimento percettivo sono, ad esempio, alcuni fenomeni collegati alle risposte allo stress che appaiono fra i meccanismi alla base dell’aumento del rischio di infortuni sportivi (Andersen e Williams, 1999).
Livelli di stress e performance sportiva
Nell’economia di una prestazione il “livello ottimale” di stress gioca un ruolo centrale, ancorché non essere questo “livello ottimale” un valore assoluto.
Diverse teorie che trattano il tema dello stress attingono a una teoria del primo Novecento (Yerkes e Dodson, 1908), che pone in relazione il livello di attivazione fisiologica, e la qualità della prestazione: tale legge presuppone che la prestazione ottimale si ottenga a livelli intermedi di attivazione, mentre a livelli bassi o alti la prestazione è minore.
L’idea diffusa che a bassi livelli e a livelli alti di stress la performance sia insoddisfacente, e a livelli intermedi sia ottimale, rappresenta il funzionamento solo di una fetta del campione, ma non della totalità – da qui, appunto, la necessità di riproporre il ragionamento e di ampliare il modello.
L’identificazione e la comprensione di uno “stato ottimale” di funzionamento, o del funzionamento della c.d. curva stress performance (SP), permette di concepire, al di là della sua connotazione empirica, l’atleta in qualità di individuo, facendo procede in sovrapposizione allenamento fisico e mentale.
Per definire alcune di queste curve utilizzeremo i nomi, con Cesare Picco (2017), delle 3 principali tipologie di motori: benzina, diesel, gas. Nel gergo sportivo, infatti, si associa spesso il termine “motore” al talento degli atleti; non sarà quindi difficile utilizzare questa similitudine, per rappresentare le qualità mentali di ognuno di noi o delle varie tipologie di atleti con i quali siamo in contatto.
A queste 3 principali curve, ne aggiungeremo ancora 2, che definiremo “a funzionamento misto” A e “a funzionamento misto” B.
In questo primo articolo ci limitiamo ad enunciare i 5 profili, rimandando al prossimo la definizione delle specificità; ovvero le caratteristiche prestative (relazione tra livelli di stress e performance), gli indicatori comportamentali, il modo in cui ogni tipologia si adatta alle pressioni ambientali o emotive (v. sopra Sindrome Generale di Adattamento), e le relazioni tra fase di allenamento/preparazione, pre-gara, gara, recupero.
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com