Sciare per la vita: strumenti di prevenzione e contenimento del drop-out giovanile nello sci alpino – 2ª parte
di Enrico Clementi
L’abbandono giovanile è sovente imputato, nello sci alpino, ai costi elevati che le famiglie sostengono per il percorso agonistico dei figli.
Altri fattori intervengono a motivare l’allontanamento dei giovani dal circuito gare, e non da ultimi l’erronea convinzione che tutti debbano poter accedere all’alto livello, e che la selezione dei talenti avvenga sui grandi numeri.
Seppure è indubbio – almeno per principio – che tutti possano aspirare all’alto livello, sostenendo a questo punto i costi materiali e immateriali che questo comporta, e non da ultimo costi emotive, esso è e rimane per pochi; sia perché il ricambio generazionale non può essere pensato operando una selezione tanto naturale quanto casuale, trattando i giovani atleti come una masse informe fatta di numeri, sia perché questi atleti, passati poi al professionismo e nella maggior parte dei casi ai corpi militari, hanno un costo sociale al quale tutti partecipiamo.
È così che in assenza di indicazioni chiare da parte di organizzazioni, dirigenti, allenatori a giovani e famiglie sul progresso delle prestazioni agonistiche – indicazioni non semplici da produrre, ma per le quali ci sarebbero comunque metodologie, strumenti previsionali e indicatori sovente disattesi – assistiamo ad abbandoni precoci, date le età di picco della performance, o, al contrario, ad una permanenza nel circuito gare che andrebbe giustificata diversamente.
Un investimento importante da parte della Federazione e da parte delle organizzazioni, va fatto da un lato sul benessere psico-fisico dei ragazzi, come attualmente avviene (“FISI per il futuro”), dall’alto sull’individuazione e crescita del talento, non demonizzando la “specializzazione precoce” e rimodulandola invece secondo criteri che non necessariamente disattendono la partecipazione e le attività deliberate, ma soprattutto il divertimento.
Lo sci, attualmente, anche per i giovani e a prescindere dai format, sembra – in senso etimologicamente proprio – non divertire più; ossia non rappresentare intrinsecamente un divertimento (dal lat. divertĕre, “volgere altrove”), un qualche cosa d’altro e di diverso dalla serie di compiti, responsabilità, doveri, attese di risultato, che i giovani vivono ordinariamente.
Non va dimenticato poi che i riferimenti alla “specializzazione precoce” o al contrario allo “sviluppo a lungo termine” sono dei costrutti; ossia degli schemi descrittivi, orientativi, di controllo, che hanno un valore pedagogico molto forte, ma, nel concreto, assolutamente relativi. E che, se assunti alla lettera, come spesso accade, si prestano a distorsioni, manipolazioni, fraintendimenti.
Entrambi gli orientamenti sono giustificabili e validi, se guardati utilizzando una certa lente, e opinabili e a un tempo, se si utilizza una lente diversa e si tiene conto di fattori quali il genere, la disciplina, l’età relativa e quella biologica, la logistica, le risorse ecc.
Soprattutto a fine stagione, credo non a caso, sono molti gli allenatori e le famiglie che chiedono un sostegno mentale per gli atleti che mostrano sintomi di malessere, fino alle lacrime, a difficoltà respiratorie, stati confusivi, in specie nelle attività di gara.
E allora è lecito domandarsi, con Rodari: Vale la pena che un bambino impari piangendo, quello che può imparare ridendo?
Almeno in teoria tutti d’accordo. Ma siamo proprio sicuri di non avere in fondo qualche pregiudizio sull’imparare divertendosi? E soprattutto, cosa significa concretamente far divertire i giovani durante il loro apprendimento?
Non parliamo qui di un divertimento estrinseco, cioè esteriore (certo anch’esso!), ma, come si diceva sopra, intrinseco, ossia che accende l’interesse, fa sentire capaci, affascina, muove alle autonomie.
Credo doveroso da parte di noi adulti non banalizzare queste tematiche, non avere atteggiamenti supponenti, non dare e non darsi motivazioni riduttive sul malessere dei giovani, ma ragionare insieme su come restituire allo sci alpino e all’attività agonistica la sua natura “divergente”.
È assai diffusa l’opinione che lo sport possa rappresentare un importante fattore di crescita nei ragazzi, e il valore educativo dell’attività sportiva è stato effettivamente dimostrato.
Si è visto, però, che questo non è di per sé un fatto automatico e scontato: lo sport agonistico può avere anche effetti negativi, sia sulla salute, sia sul piano psicosociale. Il fatto che lo sport dia un contributo positivo o negativo allo sviluppo personale di un atleta non dipende tanto dalla pratica sportiva in sé, quanto piuttosto dalla filosofia dell’organizzazione sportiva in cui l’atleta è inserito, dagli atteggiamenti e comportamenti degli allenatori, dal tipo di coinvolgimento dei genitori, dalle esperienze e dalle caratteristiche individuali e del gruppo.
Se le diverse organizzazioni del sistema sportivo e gli sci club vogliono dare un vero valore educativo e culturale alla pratica sportiva, soprattutto giovanile, devono esprimere in modo intenzionale la propria filosofia, e agire coerentemente.
Il presente articolo è il prosieguo di un mio precedente apparso su Scimagazine, titolato: Per una Federazione consapevole: il fenomeno dell’abbandono giovanile nello sci alpino al quale rimando https://www.scimagazine.it/per-una-federazione-consapevole-il-fenomeno-dellabbandono-giovanile-nello-sci-alpino/
Il lavoro “per competenze” in ambiente agonistico
Su come favorire una pratica sportiva davvero formativa, in letteratura sono presenti diverse indicazioni, spesso derivate da ricerche approfondite sulle ricadute educative di modalità di intervento nello sport giovanile (cfr. Camiré, Forneris, Trudel e Bernard, 2011; Strachan, Côté e Deakin, 2009; Watson II, Connole e Kadushin, 2011).
Promuovere lo sviluppo personale dei ragazzi significa, ad esempio, favorire lo sviluppo di un’identità positiva, della consapevolezza di sé, di aspetti etici, di atteggiamenti positivi verso il futuro (ottimismo e speranza), di comportamenti legati alla salute, della capacità di adattarsi a diversi ambienti di apprendimento e di lavoro.
Un aspetto che viene attualmente molto enfatizzato in letteratura è la possibilità che attraverso lo sport si possano insegnare diverse abilità e competenze, utili non solo nel contesto sportivo specifico, ma generalizzabili e trasferibili in modo ampio ad altri ambiti della vita (Gould e Carson, 2008; Gould, Collins, Lauer e Chung, 2007).
Queste “abilità per la vita” (life skills) sono, ad esempio, saper ascoltare e comunicare in modo efficace con compagni ed adulti, porsi degli obiettivi, prendere iniziative, saper fare scelte e prendere decisioni, avere capacità di leadership, saper organizzare il proprio tempo, riuscire a controllare le emozioni e gestire lo stress, sapersi assumere la responsabilità delle proprie azioni e simili.
Il fine dell’educazione, anche in ambiente sciistico, è l’aumento e il rafforzamento delle autonomie dei giovani e la capacità, almeno da un certo ponto in poi, di autodirigere gli apprendimenti; avremo altrimenti, per l’alto livello, “ottimi esecutori” e atleti esclusivamente dipendenti dall’efficacia delle indicazioni dello staff tecnico o del DT, che per svariate ragioni potrebbero non essere tali.
Da tutti gli autori che hanno affrontato questa tematica, viene sempre sottolineato come non sia la pratica sportiva di per sé che automaticamente garantisce lo sviluppo di queste competenze, come spesso si ritiene. Già il fatto che per definirle venga utilizzato lo stesso termine (skill, “abilità”) che si usa per le abilità motorie in generale e per le abilità specifiche evidenzia la necessità che esse debbano essere apprese dai ragazzi, e pertanto insegnate dagli adulti.
Vi deve essere un ambiente che sia adatto a questo scopo (ad esempio, un allenatore che incoraggia, la presenza di regole chiare, senso di responsabilità, norme sociali positive), e l’insegnamento di abilità generalizzabili va programmato in modo intenzionale: le abilità devono essere insegnate, allo stesso modo delle abilità tecniche, attraverso istruzioni, dimostrazioni ed esercitazioni.
È meritorio che alcuni sci club utilizzino la presenza di un mental coach a fini più educativi che prestativi, anche se ancora non è sufficientemente chiaro il distinguo tra l’una e l’altra valenza, che pure vanno integrate in ambiente agonistico: troppo spesso, infatti, l’aspetto prestativo viene enfatizzato a scapito di una crescita globale dell’atleta, che pure è il presupposto, a qualsiasi livello, dell’espressione di sé.
Un modello di intervento per allenare le life skills è stato proposto da Gould, Collins, Lauer e Chung (2006), elaborato sulla base di interviste approfondite ad allenatori che avevano ottenuto elevate percentuali di vittorie e risultati sportivi di rilievo, ma ai quali, nello stesso tempo, veniva riconosciuta la capacità di formare gli atleti come persone, come cittadini e membri attivi della società.
La maggiore attenzione era ovviamente posta su come questi allenatori riuscissero a raggiungere contemporaneamente obiettivi sia di risultato sportivo, che formativi.
Sono stati poi intervistati anche gli atleti allenati dagli allenatori coinvolti nella ricerca, che hanno fornito informazioni congruenti con quanto riferito dai tecnici.
Il modello, integrato con indicazioni ricavate anche da altri autori e dall’esperienza personale sul campo, ormai ampia, è costituito da quattro elementi:
- filosofia dell’allenatore,
- relazione allenatore‐atleta,
- strategie specifiche per sviluppare le life skills,
- considerazione dell’ambiente ed utilizzo delle risorse. Cfr. con il mio (Ri)leggere l’agonismo giovanile nello sci alpino: l’esperienza gara come “dispositivo pedagogico”https://rivistaaccademiamds.wordpress.com/2024/01/25/rileggere-lagonismo-giovanile-nello-sci-alpino-lesperienza-gara-come-dispositivo-pedagogico/
Il modello TARGET
A fini preventivi risultano utili le indicazioni che derivano da un modello didattico che considera i compiti specifici degli allenatori o di altri tecnici coinvolti, finalizzandoli appunto allo sviluppo di un clima motivazionale orientato sulla competenza.
È conosciuto come modello TARGET, acronimo dei vocaboli inglesi Task (compito), Authority (presa di decisione), Recognition (riconoscimento), Grouping (organizzazione in gruppi), Evaluation (valutazione), Time (tempo) (cfr. Bortoli, Bertollo e Robazza, 2005).
Declino il modello, trasversale ai vari sport, per lo sci alpino e per quanto riguarda la scelta degli esercizi e dei compiti di apprendimento (Task), è importante che le proposte siano significative, varie e diversificate, con un adeguato livello di difficoltà che consenta a ciascun ragazzo di esercitarsi con successo; con la sensazione, cioè, di riuscire a controllare il compito.
Come evidente il fine non è quello di evitare in assoluto la frustrazione, pure presente nelle attività agonistiche, ma di non sovraesporre precocemente il giovane rispetto ad essa, permettendogli di strutturare un’adeguata autostima e percezione di sé.
A volte può essere utile far lavorare i ragazzi, anche a gruppi, su compiti diversi, o su aspetti diversi di uno stesso compito; in questo modo, vi è meno opportunità di confronto fra compagni, e la percezione della propria abilità diviene maggiormente centrata su parametri di riferimento personali.
Il coinvolgimento dei giovani atleti nelle scelte didattiche (Authority), cioè nelle scelte finalizzate all’organizzazione delle sedute di allenamento, determina atteggiamenti motivazionali positivi.
Per sollecitare l’autonomia, ad esempio, l’allenatore può presentare alcuni esercizi o lavori da fare, anche nel tracciato, e poi consentire ai ragazzi di decidere da quali iniziare o a quali dedicarsi maggiormente, a partire da una autovalutazione delle proprie caratteristiche e dei propri bisogni.
La possibilità di scegliere dovrebbe essere percepita come opzione fra compiti equivalenti per difficoltà, e non fra un compito facile e uno difficile, così da non implicare immediatamente elementi di confronto valutativo fra ragazzi con diversi livelli di abilità: è preferibile la scelta fra esercitazioni su aspetti diversi della stessa abilità, piuttosto che su uno stesso esercizio con livelli diversi di difficoltà.
Apprezzamenti ed incoraggiamenti (Recognition) hanno un ruolo significativo a fini motivazionali; per essere efficaci devono essere percepiti come realistici e veritieri, e non sentiti come formalità.
Se l’allenatore pone ai ragazzi obiettivi individualizzati, adeguati ai diversi livelli di abilità, diviene più facile garantire a tutti esperienze di successo e dare rinforzi positivi realistici.
Va tenuto presente, però, che quando gli elogi sono dati sempre in modo pubblico, sembrano sollecitare il confronto sociale fra i ragazzi; invece, se l’apprezzamento viene dato al singolo ragazzo in privato, i sentimenti di orgoglio e soddisfazione non derivano dal confronto con gli altri, ed è più probabile che favoriscano la percezione di un clima motivazionale orientato sull’acquisizione di competenze.
Il lavoro in gruppi è spesso utilizzato nello sport giovanile, anche come modalità per meglio gestire la disciplina. Il modo in cui vengono costituiti i gruppi (Grouping) e la facilità con cui un giovane può passare da un gruppo ad un altro, sono elementi significativi per le conseguenze motivazionali; soprattutto, come capita spesso, quando ci si trovi di fronte a ragazzi con livelli di abilità molto diversi fra loro.
Se raggruppare i ragazzi in base alle loro capacità sembra didatticamente più funzionale dal punto di vista dell’apprendimento, dal punto di vista motivazionale, però, questo non risulta produttivo.
È utile, quindi, alternare il lavoro per gruppi omogenei, con attività a gruppi eterogenei, variandone nel tempo la composizione, e sollecitare anche aspetti di collaborazione ed educazione tra pari (Peer Education).
La valutazione (Evaluation) rappresenta un aspetto importante della didattica, in quanto spesso fornisce non solo indicazioni sui livelli di apprendimento, ma anche informazioni dalle quali gli atleti ricavano giudizi sul proprio valore personale.
La valutazione può avere un valore negativo per i giovani, dal punto di vista motivazionale, qualora sia fondata prevalentemente su criteri normativi e sul confronto sociale. Invece, quando la valutazione viene riferita soprattutto ai miglioramenti individuali, ai progressi verso il raggiungimento di obiettivi individualizzati, alla partecipazione e all’impegno è più probabile che favorisca un coinvolgimento dei ragazzi sul compito.
Il tempo (Time) è un aspetto fondamentale dell’organizzazione didattica, strettamente associato agli altri elementi.
Va ricordato come i ritmi di apprendimento siano individuali e come alcuni ragazzi necessitino di tempo maggiore di esercitazione per apprendere abilità, anche in relazione al livello coordinativo personale.
Pertanto, a volte, vi può essere la possibilità di un margine di tempo individuale per rafforzare o perfezionare l’apprendimento, o anche la possibilità di scelta autonoma su quanto tempo dedicare per provare ed apprendere un esercizio. A tutti, comunque, dovrebbero essere forniti opportunità e tempo per migliorare, sollecitando anche un’organizzazione autonoma nelle attività.
Elementi di programmazione negli sci club
Non è mai una buona strategia quella di intervenire quando il problema emotivo/prestativo si presenta, oppure è conclamato e non risolvibile diversamente.
Attualmente è questo quello che si fa: si interviene – se si interviene – quando il giovane presenta sintomi di malessere evidenti, prestazioni non commisurate alle attese, o magari vuole abbandonare e non si è riusciti, come genitori o tecnici, a colmare il gap prestativo e a lenire la sofferenza.
Innanzitutto è importante che gli allenatori riconoscano i segnali che indicano stanchezza e calo motivazionale, ancora prima delle manifestazioni di malessere. Alcuni di questi segnali sono ad esempio una riduzione dell’impegno, l’aumento di errori esecutivi, una prestazione qualitativamente inferiore agli standard o alle prestazioni attese, cambiamenti nell’atteggiamento verso le attività di gruppo, irritabilità del giovane e simili.
A comportamenti di questo tipo, spesso si reagisce con richiami e sollecitazioni, talvolta brusche, con lo scopo ovviamente di stimolare i ragazzi a reagire e ad impegnarsi maggiormente.
Gli allenatori dovrebbero però considerare anche la possibilità di una lettura diversa della situazione e attivare una riflessione più ampia sugli atteggiamenti dei ragazzi e su come rispondere ad essi.
Alcune indicazioni utili alla prevenzione del burnout, comunque, prima ancora di aspetti educativi specifici, riguardano già la programmazione complessiva, l’organizzazione degli allenamenti, la presentazione dei programmi alle famiglie, che sono momenti fondamentali dell’avvio di stagione; evitando, per quando possibile, le ambiguità derivate dalle suddivisione in fasce o gruppi orientati o meno all’alto livello.
Già questa ambiguità crea non solo facili fraintendimenti tra atleti con orientamenti ed esigenze diverse (orientamento all’alto livello, piuttosto che attività orientate al benessere fisico e ricreativo), ma anche e soprattutto sollecita in modo occulto i desideri, le fantasie, le ambizioni di genitori amanti della disciplina.
A tale proposito, ad esempio, Smith e Kays (2010) suggeriscono di:
- distribuire in maniera organica nella programmazione del lavoro (annuale e mensile) sia le giornate di allenamento che – in modo esplicito – quelle di recupero; qualora ciò non fosse possibile per motivi organizzativi, è opportuno ridurre i tempi complessivi di lavoro per evitare sovraccarichi non compensati bene dai recuperi;
- evitare allenamenti eccessivamente ripetitivi e con scansione settimanale sempre uguale delle proposte tecniche, anche se il meteo nello sci alpino è una variabile che sovente condiziona o modifica le scelte d’allenamento: sarebbe bene di tanto in tanto inserire anche giochi propedeutici o attività competitive ludiche non specifiche;
- utilizzare esercitazioni e situazioni tecniche variate che aiutano di per sé a mantenere alti interesse ed attenzione: è necessario che gli allenatori arricchiscano il più possibile il proprio bagaglio di attività sia tecniche che generali;
- prevedere una sospensione reale degli allenamenti al termine della stagione. Se si continuano gli allenamenti lasciando liberi gli atleti di parteciparvi, la partecipazione deve essere lasciata davvero alla scelta di ciascuno e non essere comunque motivo di tensione tra tecnici e atleti/famiglie;
- essendo lo sci alpino uno sport individuale, ma che si allena in gruppo, è importante costruire opportunità di coinvolgere i ragazzi in attività non legate in modo specifico allo sport. Se poi nella propria società sportiva si ritiene importante l’aspetto educativo più generale, ad esempio, si può anche partecipare insieme ad esperienze di rilevanza sociale.
Vivere insieme situazioni diverse, anche al di fuori dello sport, favorisce sicuramente relazioni interpersonali maggiormente significative, e dà un senso molto più ampio all’attività sportiva.
Considerazione sull’ambiente e utilizzo delle risorse
Rispetto a quanto presentato finora, è ovvio che tutto questo va considerato in termini realistici ed applicabili: gli allenatori hanno come compito specifico quello di preparare i ragazzi per la pratica sportiva, li vedono in genere due o tre volte alla settimana, quasi sempre in gruppo, con tempi ristretti di lavoro e con molti obiettivi tecnici su cui lavorare.
Inoltre, anche quando l’allenatore decide di dare la massima importanza agli aspetti educativi, in alcuni casi non sempre si riescono ad ottenere i risultati desiderati: nella relazione incidono, infatti, anche le caratteristiche individuali dei ragazzi, quelle delle famiglie che hanno alle spalle, oltre all’ambiente in cui vivono.
Questi aspetti non dovrebbero però rappresentare degli alibi per evitare di assumersi più chiare responsabilità educative.
Ad esempio, capita con una certa frequenza, nelle società sportive ma anche a scuola, che ci possano essere contrasti con le aspettative e gli atteggiamenti dei genitori, rispetto alla partecipazione e alla prestazione sportiva.
La famiglia rappresenta il contesto primario di educazione e socializzazione dei più giovani, oltre che il nucleo affettivo fondamentale fin dalla nascita. Per questo i genitori sono figure significative, e anche per quanto riguarda l’esperienza sportiva dei ragazzi, scientemente o meno trasmettono i propri modelli culturali, i propri valori ed influenzano in modo determinante motivazione, percezione di competenza, risposte emozionali e divertimento dei figli.
Gli allenatori e le società sportive che si pongono in modo chiaro il problema di uno sport realmente formativo dovrebbero cercare assolutamente la collaborazione con i genitori, affinché il messaggio educativo passi in modo forte e coerente.
Ai genitori vanno spiegate le scelte della società e gli obiettivi che vengono ricercati, ma vanno anche coinvolti in tali scelte.
Inoltre, va tenuto presente che, in genere, i genitori sono in buona fede e convinti di fare il meglio per sostenere i propri figli anche nell’esperienza sportiva; spesso, però, il loro modello sportivo è quello degli atleti adulti, conosciuto attraverso i media, oppure sperimentato da atleti, nei quali l’enfasi è posta sul risultato e dove sono presenti, a volte, anche messaggi non del tutto coerenti e diseducativi.
Ho trattato il tema diffusamente altrove e a tale articolo rimando il lettore https://enricoclementi.it/genitori-e-agonismo-tra-comportamenti-attivi-reattivi-e-specialismi/
Assistiamo inoltre ad una sorta di mitizzazione degli atleti vincenti, o comunque a una comunicazione sensazionalistica dell’evento sportivo, anche negativo: la società ha bisogno di eroi, e sovente gli atleti, per ragioni di mercato e/o generosità (che a volte sfocia nell’ingenuità, in termini di autotutela), prestano il fianco a tali bisogni.
Per questo le società sportive che credono davvero nei valori educativi dello sport dovrebbero condividere con i genitori la propria filosofia sportiva, considerandoli risorsa critica e costruttiva in una discussione sui valori che sia utile ad approfondirne il significato, coinvolgendoli dunque in un confronto continuo che possa divenire educativo anche per gli adulti, oltre che per i più giovani.