Le “parole chiave” dello sci alpino: Contesto, Esposizione, Risultato, Tutela
di Enrico Clementi
1.
Tra le tematiche di maggiore interesse proposta dalla rubrica dedicata al mentale nello sci alpino, nelle sue molte declinazioni, intersezioni con tematiche comunque attinenti, ci è sembrato che almeno tre abbiano avuto da parte di lettori e tecnici particolare riscontro: l’individuazione, tutela e crescita del talento; il rapporto, nelle categorie giovanili, tra età relativa/età biologica e risultati agonistici; il fenomeno dell’abbandono giovanile (drop-out).
Questo riscontro evidenzia diversi aspetti, che, anche se impliciti, impongono alcune riflessioni a riguardo.
La prima è che là dove è presente o è toccato un interesse (in senso etimologico dal lat. essere tra, partecipare) che va oltre l’aspetto puramente tecnico, assistiamo a convergenze o a divergenze tra i principali attori; che sono appunto i tecnici, i genitori, raramente qualche direttore o presidente di sci club, quasi mai soggetti FISI (intendo con ruoli federali di dirigenza, o deputati alla formazione dei tecnici federali) e atleti.
Il mio sforzo attuale non è, oggi, quello di fornire risposte o risolvere questioni di governance interne alla federazione, o altre di natura didattica, ma mettere bene a fuoco il funzionamento del sistema e le logiche che guidano (se le guidano), le aree d’interesse dominanti; cioè a dire:
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formazione di base dei giovani atleti,
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quindi competenze distintive e formazione dei tecnici,
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adeguatezza delle organizzazioni all’interno delle quali si svolge la formazione di base (sci club, comitati regionali, progetti dedicati),
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accompagnamento e transizione all’alto livello,
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quindi criteri di individuazione, selezione e tutela del talento (e relative metodologie),
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lettura e ulteriori forme di tutela e progressione delle élite, ossia degli atleti vincenti o “potenzialmente vincenti”.
È mia convinzione, infatti, che pur essendovi e dovendovi essere ruoli e responsabilità ben definite e chiare all’interno di un sistema assolutamente variegato e con attori molto diversi per formazione, sensibilità, aspettative, angoli visuale, obiettivi, interessi, i temi anzidetti e le questioni che ne derivano sono contigue, osmotiche.
Per questo scrivo di argomenti diversi e invito i lettori, a prescindere dal loro status all’interno della struttura comunitaria e federale, a non disattendere i vari ragionamenti, le varie responsabilità, ma soprattutto a “non separare”. Ad utilizzare, sempre e comunque, uno sguardo sinottico, una modalità connettiva, dove l’alto livello o il fine carriera d’un atleta, in termini di strumenti, formazione, supporto ricevuto, crescita personale, sono in stretta relazione con gli strumenti, la formazione, il supporto forniti, gli orientamenti dati ai giovani atleti e alle famiglie negli sci club.
2.
È inoltre evidente che ogni contesto, ogni organizzazione, ha un proprio assetto attuale e delle “retoriche”, che in qualche modo sono figlie della sua storia e portatrici di un retaggio sovente anacronistico, e quindi discutibile: lo sci alpino di oggi – è una banalità ma va rimarcato – non è quello di ieri, né quello di domani. E la storia di questo sport si scrive, si riscrive costantemente e a tanti livelli, non solo in termini di medaglie e podi; che, se vogliamo, sono la parte più effimera, autocelebrativa, se riconosciamo allo sci alpino un significato culturale o transculturale, ossia determinato dalla reciproca influenza di diverse culture su alcuni comportamenti individuali e collettivi.
Inoltre in ogni organizzazione, e la FISI non fa eccezione, la “gestione del potere” è qualche cosa di endemico, cioè di diffuso, persistente, radicato. E questo non stupisce, non dovrebbe stupire, anche se legittimo sottoporre a critica questo aspetto, nella misura in cui rafforza un assetto verticistico, obiettivamente non democratico, ambiguo nella comunicazione e ben distante da quella comunità di pratiche e di apprendimenti più volte evocate e alla quale la FISI dovrebbe tendere. Cfr. con ll “capitale sociale” in ambiente FISI. Appartenenza, identità e relazione come volano di cambiamento e azione https://www.scimagazine.it/il-capitale-sociale-in-ambiente-fisi/
Scrivo “ambiguo nella comunicazione” perché sovente formalizzato nella risposte, oppure silente – là dove il silenzio è considerato, linguisticamente, un caso limite di comunicazione interattiva ambigua, a partire dalla premessa che non si può non comunicare (Watzlawick).
E sappiamo pure che il linguaggio ambiguo è oggi definito come un linguaggio che intenzionalmente oscura, distorce o inverte il significato delle parole, dei fatti, spesso per scopi politici. La motivazione alla base dell’uso del linguaggio ambiguo e del silenzio è quindi radicata, verosimilmente, nel desiderio di potere e di controllo.
3.
Questa premessa indica che il mentale, nello sci alpino, come pure l’evoluzione della tecnica, nelle sue varie declinazioni, hanno a che fare, oltre che con le caratteristiche dei singoli, con quelle del contesto.
E Contesto è la prima parola chiave, come dico ai giovani e alle famiglie che ho il privilegio di incontrare e che si rivolgono a me. Parola che intendo diversamente da Ambiente, inteso in senso più specifico come ambiente innevato e quindi come “dispositivo pedagogico”.
Se è vero – come è vero – che il fine del mio lavoro, come quello di un allenatore, è di facilitare l’allineamento della prestazione reale con quella potenziale attuale dell’atleta, è pure vero che la difficoltà presentata, il problema, sono la punta dell’Iceberg: l’elemento visibile di una massa sottostante invisibile, che è l’identità della persona-atleta, intesa nelle sue componenti affettive, cognitive, relazionali-sociali, familiari, e soprattutto nelle sue caratteristiche d’apprendimento.
Questo vale per il giovane atleta, come per l’atleta evoluto, che però ha il vantaggio di conoscere meglio le caratteristiche di contesto, e sovente ne porta i segni, le tracce, le ferite non solo fisiche, ma emotive – dove per Contesto” non intendo solamente l’ambiente fisico, ma quello fatto di relazioni, dinamiche di potere, presenza/assenza di adeguati sostegni e azioni di supporto, presenza/assenza di pari opportunità, democraticità delle scelte, partecipazione, ecc.
Bene, se un genitore, o un atleta, o anche un tecnico, o un professionista d’area diversa, aspirano ad entrare in questo mondo e, per ragioni a volte evidenti a se stessi, altre volte meno, a restarci, a dare il loro contributo, debbono avere chiaro che il contesto è un contesto dal quale ci si possono aspettare alcune risposte o assenza di risposte (v. sopra), e non altre.
Cioè a dire, al di là degli aspetti dilettevoli dell’ambiente montano e di quello innevato (dei quali forse gode di più e meglio uno sciatore amatore), l’ambiente agonistico giovanile, il mondo gare, gli appuntamenti chiave nel passaggio al professionismo e il professionismo stesso, non garantiscono le risposte e/o le tutele dovute
Non possiamo chiedere al contesto, quel che il contesto non è o non ha, almeno attualmente: questa è una prima lezione, ed è qualche cosa che dobbiamo apprendere rapidamente, se non vogliamo restare invischiati in ragionamenti e polemiche tanto ripetitive, quanto inefficaci e poco produttive.
4.
Dopo la parola Contesto, l’altra parola chiave è Esposizione al contesto, e conseguente possibile sovraesposizione.
Dato il contesto, ognuno di noi può scegliere, come detto, se, come e in che misura dare il proprio apporto intellettuale o fisico, e se, come e in che misura restare al suo interno: in altre parole, se, come e quanto esporsi ad esso nei suoi effetti, positivi o meno che siano.
Se decido di fare sci a livello agonistico, e se decido d’impegnarmi, di seguire un programma orientato all’alto livello, se decido di affidarmi o di affidare mio figlio a un certo sci club, o allenatore o DT, se non sono un allenatore e so per certo – come è nell’ordine delle cose che sia – che i figli degli allenatori hanno maggiori opportunità di contesto, valuterò quanto investire, quanto espormi. E per fare questo debbo avere bene chiare le ragioni, i valori di questo investimento, le risorse materiali e immateriali (l. emotive) che dovrò impiegare, come genitore o atleta.
Sovente sono i genitori a dover fare queste valutazioni, in specie per i piccoli, con il rischio a volte di fare confusione o di essere in confusione; confusione assolutamente legittima, dovuta a competenze di settore limitate, a ragioni affettive, di realizzazione, che però prestano il fianco a delusioni importanti.
Non abbiamo una Federazione che ci orienta, in questo senso, e tanto meno possiamo chiedere a un dirigente di sci club o a un allenatore, se non particolarmente sensibile e formato, di tutelarci; essendo comunque lo sci club un’attività commerciale e quello dell’allenatore un lavoro che si sostiene sul numero di iscritti allo sci club stesso.
Anche se, va detto, la tendenza è quella di sci club con un numero limitato di iscritti, che puntano alla qualità e a un rapporto allenatori-ragazzi che garantisce sicurezza, differenziazione delle proposte, giusti equilibri tra performance e apprendimento deliberato. Ma anche servizi d’altro genere e attenzione agli aspetti educativi e di crescita personale globale.
4 a.
Allora la parola Esposizione fa il paio con Sovraesposizione; nata dal rischio di sovraesporre appunto i propri ragazzi a pressioni, stress, delusioni, infortuni, ferite emotive e da ultimo a un’attività non propriamente formativa, date le premesse.
Non voglio dissuadere nessuno, né tracciare un quadro fosco del mondo federale e dell’ambiente agonistico, ma solo rispondere, indirettamente, ai tanti commenti che leggo nei nostri articoli, e che denunciano forme esplicite o latenti di disagio: frequenza degli infortuni, intensità dell’allenamento nei primi anni della formazione, disparità di attenzioni e opportunità, insostenibilità dei costi e assenza di supporti ecc..
Esposizione al contesto, quindi, e possibile Sovraesposizione dei giovani, in assenza di sostegni adeguati e tutele.
Già emerge la quarta delle nostre parole chiave, Tutela, che però voglio trattare per ultima, soffermandomi ancora un paragrafo sulla sovraesposizione dei giovani, che è una sovraesposizione al contesto, ma anche fisica (rischio infortuni), mediatica, relazionale, emotiva, in una fase di crescita incerta in cui autostima e autoefficacia percepita sono invece da scoprire, rafforzare, allenare.
In questa fase il giovane può bene non sapersi tutelare, autotutelare, e quindi il genitore o l’allenatore o altri per lui, dovranno evitare, appunto, che si sovraesponga, valutando la quota di rischio che per abilità tecniche acquisite, aspetti caratteriali, consapevolezza personale, è in grado di sostenere.
È evidente che una quota di rischio va sostenuta in ambiente agonistico – e Rischio potrebbe essere un’altra parola chiave da approfondire nei suoi vari aspetti, nelle sue componenti non solo negative, ma formative – e quindi l’esposizione è sempre, in un certo senso, una sovraesposizione, che però va ragionata, valutata, decisa in modo evolutivo e strategicamente intelligente.
Non si lavora per le autonomie dei giovani, in specie se adolescenti, se non assumendosi una quota di rischio ponderato e responsabilità condivise, nei modi del “rischio educativo”. Educare al rischio significa insegna a trovare il limite senza superarlo, ad accrescere la fiducia in sé stessi e ad adottare dispositivi di autoprotezione, in un contesto sociale che non necessariamente è chiamato a farlo.
Questa mentalità è una mentalità che per chi ha ambizioni e punta all’alto livello, va in qualche modo costruita, fornendo strumenti prossimali e distali che preparino l’atleta dapprima ad allenarsi, nel mentre a competere (gestendo il carico di frustrazioni che questo comporta in modo comunque positivo, evolutivo, di crescita), successivamente a vincere.
5.
Siamo qui alla terza delle nostre parole chiave: Risultato.
Il risultato, agonistico ma non solo, è ciò che risulta come esito definitivo di un’azione, di un’attività, di un impegno. E questo risultato può essere più o meno buono, più o meno positivo, non solo in termini assoluti, ma anche soggettivi.
Per lo sci, ad esempio, mentre il risultato cronometrico è il riferimento assoluto, oggettivo, quello di performance è il risultato che un soggetto, o un team, apporta attraverso la propria azione al raggiungimento delle finalità e degli obiettivi. Finalità e obiettivi che, nello sci alpino, come sappiamo, in specie nelle categorie giovanili e a seconda delle caratteristiche dell’atleta, è scorretto intendere in senso assoluto.
Lo è per varie ragioni e in primis perché l’età della migliore performance (Peack Performance), pure variando per disciplina, gruppo e genere, è raggiunta mediamente tra i 20 e i 30 anni. Cfr. https://www.scimagazine.it/tassi-di-miglioramento-peak-performance-e-transizione-da-j-a-s-nello-sci-alpino/
In secondo luogo perché lo Sviluppo dell’Atleta a Lungo Termine (SALT – FISI, STF) indica, per categorie/fasce d’età, finalità tanto efficaci, quanto efficienti; ossia, rispettivamente, finalità capaci di produrre i risultati attesi (migliore performance), e capaci di produrre tali risultati ottimizzando le risorse disponibili.
In terzo luogo perché gli sci club intercettano i bisogni di un’utenza molto variegata, con ragazzi e ragazze che, per vicende familiari, caratteristiche di personalità, struttura fisica, obiettivi dichiarati ecc., non necessariamente intendono vivere l’attività agonistica con il fine ad essa precipuo (vincere), ma magari con il fine di rafforzare altre abilità, tra le quali ad esempio la capacità di competere.
Ricordiamo che il SALT è un modello orientativo, previsionale, di controllo, in definitiva didattico, che non necessariamente confligge, come spesso leggo o sento dire, con l’orientamento all’alto livello e quindi con l’urgenza di una specializzazione precoce – dove anche qui il termine “precoce” non va strumentalizzato a fini polemici, ma chiaramente declinato in relazione al soggetto, al genere, alla disciplina, al contesto. (Cfr. articolo cit.)
Semmai un difetto del SALT e degli sci club in genere, è quello di non definire e comunicare ad atleti e famiglie in modo chiaro, intelligibile, questi obiettivi; obiettivi che vanno declinati a partire dalle finalità (il SALT indica le sole finalità o obiettivi generali, che dir si voglia, ma non gli obiettivi specifici) e secondo una “doppia centratura”: una per il singolo, l’altra per il gruppo.
Capisco che sia un lavoro impegnativo per i tecnici, ma va assolutamente approntato, pena un grado elevato di confusione per atleti e famiglie, e l’inefficacia del tentativo da parte degli allenatori di svincolare gli stessi da aspettative di risultato che, come uniche variabili, conoscono il vincere o il perdere, lo stare tra i primi x atleti o meno.
Ne va della credibilità del lavoro svolto, pure encomiabile per altri aspetti, ma ne va della ricchezza dell’esperienza-gara e del percorso per prepararsi ad essa nel suo complesso; altrimenti svilito ai minimi termini e assolutamente “povero” in termini di feedback d’apprendimento sia tecnici, che di comportamento.
5 a.
Il discorso cambia per l’alto livello, che non va pensato per i grandi numeri – anche se ognuno, in modo assolutamente legittimo e democratico, può aspirare ad esso.
Come dice bene Ravetto in un’intervista di qualche anno addietro, titolata L’integrazione nello sport – per altro condotta in modo molto garbato e diligente da Beppe Vercelli – nello sport di vertice non basta partecipare.
Si rappresenta una nazione, si hanno degli obiettivi che sono obiettivi di risultato, e che non possono che essere assoluti. In quanto c’è un dispendio e una gestione di risorse, anche pubbliche (si pensi agli atleti in forza ai gruppi militari), c’è un chiaro orientamento all’eccellenza, ossia all’unicità, alla perfezione, ed è gioco forza che “bisogna essere i migliori”.
Oggi, con la tendenza a promuovere a fini commerciali l’orientamento all’alto livello, la serietà e la responsabilità di assumere anche posizioni scomode, di prendere decisioni impopolari, anche tra gli atleti, di “metterci la faccia” (da parte di tecnici, DT e dirigenti), è venuta meno. E infatti lamentiamo, nelle nazionali, assenza di risultati, almeno in alcune discipline e da una certa fascia di atleti “potenzialmente vincenti”, difetti o ritardi nella programmazione, assenza o vuoti in termini di ricambio generazionale, assenza di innovazione sul piano tecnico, sul modo di condurre gli allenamenti, sugli input attesi e simili.
Invito comunque ad ascoltare questo breve video, non solo o non tanto per i contenuti, ma – ripeto – per la serietà dei toni e l’entità dei risultati (2^ nazione al mondo quell’anno, 21 podi), al fine di avere un’idea più chiara, meno evanescente delle relazioni, ma anche del profondo divario, tra circuito giovanile, orientamento all’alto livello e vertici nello sport https://www.youtube.com/watch?v=W5VJsNjqT_k&t=422s
6.
L’ultima parole chiave con la quale ci confrontiamo è Tutela.
La tutela non riguarda soltanto i giovani o il talento, ma, per le ragioni anzidette e la complessità e delicatezza di alcuni equilibri, che sono equilibri del gruppo, dello staff tecnico e quindi del singolo, anche l’alto livello e le élite.
Di tutela nello sport si parla da tempo, ma nello sci alpino questo termine è associato, quando lo è, solamente al talento, alla “tutela dei talenti”.
Ma essere un’organizzazione quanto più sicura per bambine, bambini e adolescenti, significa cercare di prevenire una serie di rischi ed evitare di esporli a quelle situazioni che potrebbero influire sul loro benessere, creando un ambiente positivo che possa sostenere il pieno sviluppo fisico e psicologico (Cfr. art. 33 della Costituzione).
La tutela è tutela da abusi, fisici o psicologici, da infortuni, data la varietà di situazioni in cui l’atleta o il giovane atleta, o il bambino appena entrato in sci club si trovano esposti, non tanto in allenamento o gara, ma fuori dal tracciato (pensiamo alle trasferte estive e alle insidie dei ghiacciai), da forme di bullismo tra pari, che pure non mancano, ma soprattutto tutela in termini di proposte didattiche, programmazione, metodologia, obiettivi.
La tutela è anche tutela delle famiglie, che sono i destinatari intermedi del servizio offerto e il soggetto pagante, sovente abbandonate a loro stesse in alcune scelte, a fronte di una programmazione che di anno in anno lascia intravedere una crescita dell’atleta tanto indefinita, quanto illusoria, per alcuni aspetti.
In questo senso famiglie e atleti vanno tutelati da quella sorta di limbo, di zona grigia, all’interno della quale maturano, in alcuni casi, aspettative di risultato sovradimensionate alle caratteristiche e possibilità dell’atleta, anche se vincente, oppure forzano (a fin di bene) un percorso che i ragazzi stessi vorrebbero gestire, in ragione di altri bisogni propri di quell’età, secondo ritmi e modalità diverse.
È quindi bene, in tal senso, come Federazione, sci club, atleti, famiglie, osservare e domandarsi se in termini di tutela – intesa in accezione ampia – si stia facendo tutto quanto possiamo, dati i sostegni e le risorse a disposizione.
Perché è evidente che si debba tenere conto di sostegni e risorse, nel caso si vogliano tutele maggiori di quelle attuali. E questi significa:
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più formazione (non solo quella obbligatoria della Federazione) o una formazione pensata diversamente per i tecnici, anche interna agli sci club;
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significa un rapporto allenatori-atleti che permetta di lavorare in sicurezza, in specie durante le trasferte e con i più piccoli;
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significa inserire nella programmazione attività formative/informative e di scambio, per atleti e famiglie, sugli aspetti di cui sopra e che possiamo ricondurre latamente al “mentale”;
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quindi un approccio al mentale, ai fattori prestativi, più convenzionale nei modi, ma diffuso (!) e inteso in chiave educativa, non psicologica. Ossia non incentrato sull’emergere del problema o sul problema stesso, ma in accezione positiva, preventiva, inclusiva;
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l’utilizzo di figure terze rispetto a quelle in organico che, dal lavoro di base al professionismo, facciano supervisione o consulenza, come in qualsiasi altro contesto lavorativo;
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ecc.
Potrei continuare con altri item, ma so per certo che le risorse, in specie per i piccoli club, sono limitate. Ma anche qui andrebbero immaginate forme di sostegno vicarie e aggregazioni per l’ottimizzazione degli aspetti logistici, delle risorse, che pure sono state tentate in altri anni (penso ad Asso S.C.I., Associazione di Sci Club Italiani), ma le cui finalità e azione restano ad oggi pressoché ignote e assenti.
Ma penso anche a progetti educativi diversi da quelli istituzionali e dagli Ski college, che vedono spesso coinvolti una rete di attori territoriali, ad esempio nella formula dei convitti, e che potrebbero costituire una risorsa per giovani talenti, o per giovani seriamente orientati alla professione.
Oppure a sci club di nuova concezione che, rinunciando ai grandi numeri, mirano a un lavoro di qualità, sufficientemente differenziato, ripensando da capo tempi e modi di erogazione del servizio, ma anche intensità del lavoro, rapporti numerici, cogenza dei servizi offerti, multifunzionalità delle sedi ecc..