La formazione dei tecnici di sci alpino, tra adattamento funzionale e dinamiche generative
Il tecnico di sci alpino
Nello sci alpino le figure del maestro, dell’allenatore, dell’istruttore, rimandano ad azioni educative che sono quelle dell’insegnare, dell’allenare/addestrare, dell’istruire/formare.
In qualche modo tutte queste figure sono riconducibile ad una téchne, a una perizia, intesa come insieme di conoscenze e competenze sia specifiche (saper fare), che trasversali (saper essere).
Il tecnico di sci alpino è quindi una figura professionale più prossima a quella dell’artista, o dell’artigiano (il termine greco téchne significa “arte”), che a quella del tecnocrate, la cui credibilità professionale risieda prevalentemente su una competenza di natura tecnica.
Va evidenziato, infatti, che a prescindere dal profilo e dai target il lavoro del tecnico è fondato sulla relazione, e implica componenti affettive (affiliazione, adozione, desiderio, dipendenza, contro-dipendenza, accettazione, rifiuto) e sociali (asimmetria, autorità, autorevolezza, reciprocità, unidirezionalità).
Formazione adattiva e proattiva
Essendo il tecnico di sci alpino se non un artista, un artigiano (la differenza tra i due è data dalle finalità del prodotto, che per l’artista può anche non essere pratico), la sua è un’azione intrinsecamente generativa; ossia radicata in quella struttura antropologica che spinge ognuno di noi a realizzare qualcosa di proprio, a lasciare un segno nella realtà presente.
È riduttivo, quindi, proporre una formazione finalizzata all’aumento di conoscenze, specifiche o trasversali che siano, rispondendo alla logica, oggi dominante, dei “fabbisogni formativi”.
Riscontriamo, infatti, in questo tipo di formazione, una separazione tra dimensione materiale-esecutiva e immateriale-conoscitiva.
Formare, viceversa, implica una ricerca di senso, un’attribuzione di significato, che non è affatto scontata e che è centrale nella dinamica formativa.
Tale significato (che preciseremo meglio nei prossimi paragrafi) è in qualche modo propedeutico all’apprendimento e, riteniamo, funzionale ad esso.
Come indica Stefano Gheno (La formazione generativa. Un nuovo approccio all’apprendimento e al benessere delle persone e delle organizzazioni, 2010): In assenza di questa attività di significazione la formazione non è altro che il tentativo di rispondere ad una disfunzionalità. […] In questa prospettiva l’apprendimento e la formazione non sono fattori di sviluppo personale, ma strumenti di adattamento funzionale.
La negoziazione dei contenuti formativi
Nel paragrafo precedente ho fatto riferimento all’enfasi che ancora oggi viene posta al tema dei “fabbisogni formativi”, che sfocia, sovente, nella richiesta al formatore di prodotti adattivi, più che generativi.
Questo in ogni genere di formazione, da quella dei tecnici, al lavoro di alfabetizzazione rivolto alle categorie giovanili.
Certamente, in questo c’è una corresponsabilità da parte di chi produce formazione, nel reiterare alcune proposte evidentemente poco efficaci, sul piano di una crescita culturale del settore e di un cambio di paradigma.
Per cui è richiesta un’azione di negoziazione a monte, sia con la committenza (la Federazione, nella persona dei dirigenti e dei direttori tecnici), che con i partecipanti alla formazione stessa, al fine di una formazione orientata allo sviluppo, più che alla gestione, al “salto di qualità” più che al miglioramento.
Questo lavoro di negoziazione, che precede qualsiasi contenuto, ha implicazioni di vario genere per chi fa formazione o alfabetizzazione: sia metodologiche che comunicative, sia didattiche che relazionali. E la domanda di fondo è, con Gheno (La formazione generativa., cit.): quali approcci, quali strumenti favoriscono l’emergere del protagonismo nell’apprendimento e la ricomposizione della frattura tra interesse professionale e investimento personale, tra sapere tecnico e crescita personale?
In questo senso sarò molto diretto nell’affermare che una formazione che disattenda questo interrogativo e non stani (si passi il termine) il tecnico, come pure i giovani, ma anche i dirigenti, dalla loro comfort zone, dal loro “corporativismo”, non ha ragion d’essere; se non, come detto sopra, in accezione negativa (si risponde a una mancanza, a un bisogno) e limitatamente ad una funzione adattiva.
Formazione e “promozione del benessere” individuale e gruppale
La scelta di tematiche, metodologie, approcci, quindi, non potrà rispondere ad una mera “analisi dei fabbisogni”, per quanto utile possa sembrare, né alle sole richieste esplicite del committente; ma dovrà recuperare una concezione di persona, di atleta, di tecnico, sì portatore di bisogni, ma anche di desideri.
Ossia di una persona che, al di là degli atteggiamenti acquisiti (ogni contesto professionale, ogni gruppo umano sviluppa elementi sì identitari, ma anche di difesa, di “solidarietà negativi”), ha un intrinseco desiderio generativo. Desiderio che è preceduto dal desiderio di riconoscimento e da un’esigenza di senso e di utilità. (Cfr. autore e op. cit.)
Se una formazione generativa riguarda il professionista della neve, agendo sulle risorse interne e in primo luogo – date le caratteristiche della professione – sulla riduzione dell’impatto dei fattori stressogeni, essa non può non riguardare le organizzazioni che compongono la base sociale (gli sci club), i raggruppamenti territoriali delle organizzazioni stesse (i comitati), e il management.
Si parla quindi di un people management “generativo”, ma anche di una community manageriale che sia in grado di progettare e gestire azioni di sviluppo organizzativo.
Parliamo cioè di un team di lavoro orientato allo sviluppo dei propri membri e capace di sviluppare e diffondere una cultura organizzativa orientata alla promozione del benessere.
È quello che nel libro citato di Stefano Gheno viene denominata come esperienza di team building positiva o positive team building. Dove il “positivo” indica un gruppo di lavoro che valorizza l’apporto individuale, facendo leva sull’aumento delle competenze, più che sulla gestione delle dinamiche di conflitto.
L’ambiente dello sci alpino, per ragioni endogene, è, come corretto che sia, un ambiente competitivo, ma che comunque rischia di divenire autoreferenziale e di difendersi attraverso un irrigidimento dell’identità gruppale.
Se da un lato tale atteggiamento di gruppo è protettivo nei confronti dei membri, anche a fronte di comportamenti palesemente scorretti o inadeguati dei membri stessi, dall’altro il rischio è che qualsiasi personalità positiva – nell’accezione da noi data al termine – rischia di essere omologata o di scomparire.
La domanda da porsi, ora, è se sia possibile assumere un modello comunitario e formativo diverso, che permetta al singolo di emergere all’interno del proprio gruppo, senza minarne la stabilità o senza indurre dinamiche conflittuali tra i diversi membri.
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com