Il mentale nello sci alpino secondo Christian Thoma
Christian Thoma è attualmente direttore tecnico della squadra femminile svedese. In questa intervista, occasionata da alcuni scambi diretti quest’estate allo Stelvio, ci racconta il suo modo d’intendere la componente mentale nello sci alpino; nonché il modo di allenarla, a partire dallo specifico della sua professione.
Infatti, come leggeremo nell’intervista a Thoma, c’è una circolarità tra atteggiamento mentale e componente tecnica e tra tecnica e atteggiamento mentale: l’allenatore e il mental coach, di fatto, pur muovendo da letture diverse delle caratteristiche dell’atleta, hanno lo stesso fine, ossia quello di facilitare l’allineamento della prestazione reale, con quella potenziale.
Christian utilizza prospettive diverse da quelle psicopedagogiche o pedagogico educative, un lessico diverso, esempi e approcci pure diversi; ma da ultimo parla di intenzionalità dell’agire (le scelte tecniche sono orientate a un fine, anche formativo), di “rischio educativo” e lavoro per le autonomie (pedagogia dell’errore), del “principio di contingenza” (si lavora sul qui ed ora della situazione concreta: accettazione e impegno), di utilizzo di canali d’intelligenza multipli e non omogenei (propedeutica alla polivalenza nello sci) ecc.
Sento allenatori dire che “non ci si inventa nulla” nello sci, ma a mio modo di vedere, ad essere discriminante sul piano delle proposte formative, non è il “nuovo”, l’originale ad ogni costo, ma la costante ridefinizione dei presupposti conoscitivi (la cornice); che, a loro volta, informano poi, sul piano qualitativo, le pratiche, l’operatività.
L’intervista a Christian Thoma, dopo quella a Claudio Ravetto https://www.scimagazine.it/lallenamento-mentale-nello-sci-alpino-secondo-claudio-ravetto/ e al discorso sull’agire educativo sviluppato a partire dall’intervista a Simone Del Dio https://www.scimagazine.it/simone-del-dio-lazione-dellallenatore-come-agire-educativo/, mi sembra un buon esempio in questo senso e una testimonianza da ragionare.
Ciao Christian, ci dai una prima definizione di quello che per te, come allenatore, è l’aspetto mentale nello sci alpino? Spesso è difficile, in specie nello sport di vertice, distinguere l’aspetto tecnico da quello mentale: come lo collochi, come lo interpreti?
Prima di tutto dobbiamo ricordarci che lo sci è uno sport individuale, dove tutti gli atleti crescono in ambienti diversi e in modo diverso. L’unica cosa che hanno in comune è che sono cresciuti con la competizione e con la voglia di vincere, ognuno a suo modo.
L’aspetto mentale nello sci alpino è fondamentale, pensando che il lavoro di tutto l’anno dev’essere compresso in 10 gare di specialità che durano max 2 min. e 30 s. ciascuna, con poche possibilità di correggere. Tanti atleti di Coppa del Mondo hanno a disposizione solo una o due discipline. Già questo fatto crea tanta pressione. Per me questa pressione non è controllabile, però l’atleta deve essere capace di gestirla e per questa ragione prima di tutto deve accoglierla, accettarla. Il modo di gestirla è molto individuale e anche sensibile. Per me la parola chiava per una gestione vincente è la fiducia: fiducia nel lavoro tecnico, nei materiali, fisico, delle proprie capacità e fiducia nelle persone intorno.
Per l’allenatore è fondamentale guadagnarsi la fiducia dell’atleta. Può essere il tecnico più bravo al mondo, ma senza guadagnarsi la fiducia del suo atleta non avrà successo. Ci vuole tempo e pazienza e prima di tutto bisogna ascoltare e comprendere il modo di pensare dell’atleta. Il passo successivo è il “sorprendere”! Un allenatore bravo dev’essere capace di sorprendere con soluzioni semplici e costruttivi che aprono delle porte di possibilità all’atleta.
Come tutte le cose, anche la fiducia è una moneta con due lati. Il lato negativo della fiducia è la dipendenza. Purtroppo tanti allenatori e anche mental coach sfruttano questo aspetto per assicurarsi una posizione e per nutrire il proprio ego. A lungo termine, un rapporto inizialmente positivo, avra esiti negativi e si rivelerà controproducente.
L’obiettivo di un allenatore deve essere sempre quello di far crescere e maturare l’atleta in tutti in sensi. Più cresce, più deve sentirsi anche indipendente. Solo questo gli dà la fiducia in se stesso per perseguire obiettivi e successi di altissimo livello. L’atleta deve imparare a camminare da solo. L’allenatore lo segue e gli dà delle direzioni, tante volte solamente una piccola pacca sulla spalla.
Per me il “coaching“ migliore è quello dove l’allenatore con la sua esperienza e la sua conoscenza dell’atleta lo ha sotto gli occhio al 100%, però l’atleta non lo sente, perché si sente libero. Ogni tanto vedo se un atleta va nella direzione di compiere un errore. Sta a me come allenatore decidere, se questa esperienza di fallimento ha un esito produttivo o contro produttivo. Libertà per me vuol dire anche poter sbagliare e fare esperienze, senza che l’allenatore diriga necessariamente ogni singolo passo.
Un atleta cresciuto e gestito in questa maniera diventerà più creativo e troverà assieme all’allenatore delle soluzioni sempre più efficaci, soprattutto là dov’è solo e in gara sarà capace di sorprendere. Tutti gli atleti di talento, avendoli gestiti per tanti anni, sono stati comunque capaci di sorprendermi, così come io ho cercato di sorprendere loro!
Fai qualche cosa con gli atleti che segui, in modo intenzionale e in termini di atteggiamenti e comunicazione, per andare a rafforzare determinate abilità mentali? Per fare un esempio, tra i molti, la gestione dei carichi emotivi e la gestione della frustrazione
I carichi emotivi sono spesso alti, però sono percepiti sempre diversamente. Come tutti noi anche l’atleta un giorno si sente meglio e un giorno meno bene, sia fisicamente che mentalmente. In questi momenti bisogna esser aperti e onesti con se stessi, accettandolo e concentrarsi subito su obiettivi di performance. Io dico sempre ai “miei” atleti di ricordarsi che sono professionisti e che, in quanto tali, sanno quel che devono fare. Alla fine non c’entra o c’entra poco “come si sentono”. Quanti atleti si sono sentiti magari poco energici e incerti al mattino e comunque hanno vinto? Quanti di noi si sono sentiti male prima di un esame e comunque lo hanno svolto in modo eccellente? “Non è importane come ti senti, alzati e fai quello che devi fare!”
Quali caratteristiche mentali ritieni debba avere necessariamente sviluppato un atleta che arriva all’alto livello?
Deve essere onesto con se stesso e deve essere aperto mentalmente , sufficientemente creativo per trovare delle soluzioni. Per cambiare la realtà prima di tutto devo essere capace di accettarla. E questo non è una decisione momentanea: da qui, da questo presupposto, si va avanti. Questo atteggiamento è più una filosofia di vita. “Tutto le cose sono come sono”, adesso… però posso provare a cambiarle! Con questo modo di pensare la mia mente è nel qui ed ora, nell’“adesso” e parto da lì dove sono e non là dove magari vorrei già essere! Tanti atleti di altissimo livello e in tutti gli sport, a mio parere, hanno capito questa cosa. Sembrano sempre tranquilli, realistici e motivati per tutte le sfide. Mi vengono in mente, tra i molti, un Axel Svindal, o un Roger Federer.
In che modo è possibile, a tuo avviso, fornire al giovane atleta conoscenze e competenze mentali che da un lato lo aiutino a crescere (aspetto educativo), dall’altro, in fasi evolute del percorso, lo preparino al professionismo?
A mio parere si riesce in questo senso a fare tanto, però ci vuole tempo. Per sfruttare al meglio le opportunità di crescita di un giovane atleta non basta l’educazione nei raduni dello sci club. Per essere più efficaci nel modo di essere e di funzionare si dovrebbe coinvolgere anche l’ambiente dove il giovane atleta passa comunque la maggior parte del tempo, cioè la famiglia. A mio parere si vede e si riconosce subito un giovane atleta che proviene da una famiglia che propone un’educazione favorevole o meno favorevole allo sport agonistico di alto livello. Non voglio criticare o giudicare i modelli educativi dei genitori, però il modo di pensare, la stabilità mentale, come il modo di vedere il mondo con tutte le sua possibilità e sfide – e anche la capacità di accettare queste sfide! – parte già di lì.
L’estate scorsa, chiacchierando con te al Tibet [il Tibet è l’albergo ristorante di Christian e della sua famiglia al Passo dello Stelvio] mi hai detto che spesso utilizzi, in maniera intenzionale, delle modalità un po’ “forti”, direttive con gli atleti che alleni. Ci spieghi meglio in che modo queste modalità sarebbero d’aiuto all’atleta sul piano prestativo? (A volte si ritiene che gli apprendimenti siano facilitati, viceversa, da relazioni “morbide” e da un clima disteso)
L’atleta di alto livello deve fare esperienze intorno ai suoi limiti per migliore. Questi limiti sono più flessibili da lavorare fin quando sono giovani e diventano sempre più rigidi con gli anni, come per tutti noi. La via “soft” non porta sempre ad ampliare questi limiti. Ogni tanto ci vogliono anche delle provocazioni, o delle piccole stoccate nel momento giusto, nel punto giusto e nel posto giusto. Prima di tutto bisogna conoscere l’atleta molto bene e aver ottenuto, o meglio ricevuto, la sua fiducia, come ho detto all’inizio. Una domanda provocatoria, senza necessariamente attendersi una risposta, tante volte, già è sufficiente per stimolare l’atleta ad avviare una certa riflessione.
Lo sci alpino è uno sport fatto di “dettagli”: che posto occupa il dettaglio nella programmazione delle attività con i tuoi atleti? Per fare solo un esempio tra i molti: in sede d’allenamento, ricostruisci in modo puntuale le condizioni di gara? Stante l’imprevedibilità di alcune variabili ambientali
Certamente sì cerca di anticipare certe condizioni di gara anche in allenamento. Però alla fine è più importante creare una situazione dove l’atleta entra in un buon “flow” prima della gara. Faccio un esempio: Prima di una gara di slalom molto ripido è importante allenarsi qualche giorno sul ripido. Bastano anche due o tre giorni, se c’è tempo. Gli ultimi giorni prima della gara preferisco scegliere un pendio più facile, dove l’atleta è nella sua zona comfort e sente delle curve “perfette”, dove si diverte e si sente forte, capace, in grado di gestire al meglio la situazione.
Sappiamo che discipline diverse, oltre a tecniche diverse, richiedono attitudini mentali pure diverse: come alleni su questo piano la polivalenza? (Mi sembra che attualmente si vada verso una sorta di specialismo forse disfunzionale, sia sul piano tecnico, che su quello mentale: spostamento del focus su obiettivi diversi)
È vero! Ci manca la polivalenza e al nostro livello ci manca anche il tempo per allenarla. Bisogno investire più tempo nei giovani e abituarli a sport diversi o anche [come nel caso della Vhlova con la batteria per le abilità coordinative] ad imparare uno strumento musicale. Tutto quello che imparano da piccoli è utile a quello che devono imparare da grandi. Il livello delle abilità fisiche e mentali, nello sport di vertice, si sta alzando tutti gli anni e bisogna essere sempre più completi da un lato (polivalenza) e più specializzati in dall’altro. Il range di abilità va implementato quando è possibile, quando c’è tempo per farlo e quando questo risulta più facile e viene vissuto come un gioco.
Se lo fai, come differenzi la comunicazione in allenamento con quella della gara? Nello specifico pre e post-gara. Fai nel pre-gara discorsi “energizzanti”, d’incoraggiamento? (Quello che gli americani chiamano Pep-Talk)
A distanza di 8 a 6 giorni prima di una gara sono sempre molto critico, anche se l’atleta scia forte. Vado più nei dettagli e cerco di tenerlo “con i piedi per terra”. Più ci avviciniamo alla gara, più cambio il focus e vado verso i punti forti e la fiducia. Prima della gare, nella situazione ideale, non si parla più di tanto di tecnica o di analisi approfondite. Piccoli stimoli vanno sempre bene, però l’atleta deve sentire che l’allenatore si fida di lui. La cosa peggiore è se l’atleta sente che l’allenatore non è sereno a sua volta e si preoccupa. Ogni tanto, come detto sopra, bisogna chiudere anche un occhio e solamente fidarsi. Di solito si cambia poco la mattina, durante la fase di riscaldamento e attivazione; il motivo di questa scelta è che si rischia di più, come evidente, di creare insicurezze nell’atleta.
Grazie Christian per la tua disponibilità e buon lavoro!
Enrico Clementi – Educatore, Formatore, Consulente e Trainer educativo https://enricoclementi.it/
Autore de: L’allenamento mentale nello sci alpino. Prospettive e strumenti dal mondo dell’educazione (BMS, 2020) http://www.bmsitaly.com/prodotto/allenamento-mentale-nello-sci-alpino/
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