Hard Fun: lo sci alpino come “divertimento difficile”
L’intelligenza di un individuo si misura dalla quantità d’incertezze che è capace di sopportare – I. Kant
Un quadro d’insieme
Siamo alla seconda parte di stagione e ad un “giro di boa” per il nostro programma editoriale.
Se nella prima parte abbiamo abbozzato un quadro generale di riferimento, capace di estendere il mentale e il suo allenamento ad aspetti di sistema, nei prossimi appuntamenti – che ricordiamo essere a cadenza quindicinale – tratteremo aspetti “di dettaglio” riguardanti il mental training e il coaching mentale.
Riteniamo, infatti, che senza una definizione adeguata del settore di riferimento e delle organizzazioni, delle figure tecniche, dei target che lo sostanziano e lo animano, anche il mentale rischia di essere inteso in accezione meramente tecnica, se non tecnicistica.
Viceversa e come sottolineato più volte, crediamo più pertinente e costruttivo lavorare all’integrazione di elementi soggettivi e prestativi, anteponendo la crescita personale dell’atleta alla risoluzioni di problemi mediante tecniche codificate.
È un cambiamento di prospettiva nulla affatto semplice da cogliere, ma soprattutto da attuare, imponendo, anche sul piane metodologico e ai tecnici, un cambio di passo e aggiustamenti metodologici sui seguenti piani:
- – tempi lenti di trasmissione, ricezione/apprendimento e dilatazione dei tempi di latenza;
- – ridefinizione del ruolo del tecnico, in accezione se vogliamo “neutra”: il tecnico di sci alpino funge da specchio all’atleta e lavora, sempre e comunque, per le autonomia;
- – la dimensione individuale della disciplina deve o dovrà, per ragioni di ricambio generazionale sia degli atleti, che dei tecnici, valorizzare ulteriormente la dimensione gruppale e destinare attenzione e risorse a quello che abbiamo chiamato, nel nostro primo articolo di questa stagione, il “capitale sociale” della Federazione;
- – in questo senso la formazione dei tecnici (aspiranti maestri e istruttori) e la figura dell’allenatore in particolare, dalle categorie giovanili al professionismo, è un punto nevralgico, strategico, per il futuro di questo sport. Abbiamo dedicato a questi aspetti, rispettivamente, il secondo e l’ottavo dei nostri appuntamenti.
Anche il coaching mentale, come anticipato, va ridefinito in questa stessa prospettiva, recuperando uno spettro meno “clinico” e più educativo; ossia più centrato sulla persona e sulla dimensione comunitaria (team bulding positivo), che non su metodologie o modelli predefiniti e sostanzialmente statici.
Anche nelle élite questa visione va superata, perché ingannevole e in qualche modo lesiva dell’intelligenza e del processo di crescita e integrazione dell’atleta, che comunque è e rimane un “giovane atleta”, con tutte le sue lacune, incertezze, fragilità.
Se vogliamo veramente tutelare gli atleti e – come leggo da più parti – (pre)occuparci del “poi” della loro carriera, dovremmo smetterla, anche comunicativamente, di creare miti.
In questo senso ho ridefinito un’idea di “sciatore potente” in tre articoli dedicati – terzo, quarto e quinto appuntamento stagionale – proponendo un accezione di potere personale (self-empowerment) sia come processo, che come sentimento o percezione, o ancora come azione (per approfondire vedi, su queste stesse pagine: Lo sciatore “potente” 2: un profilo)
L’approccio, come evidente, è un approccio socio-educativo (al più psico-sociale) e comunitario, che necessita di strumenti di conoscenza e di una alfabetizzazione emotiva “precoce”; che, come per i fondamentali dello sci alpino, possiamo pensare, opportunamente modulata, a partire dalle categorie Baby e Cuccioli. Vedi art. 7: Il mentale nelle categorie “minori”: orientamenti pratici ed esperienze con Pulcini e Children.
Intermezzo
Ricevo a volte da lettori e amici l’indicazione, la critica, che i miei articoli sono di difficile accesso e a volte, almeno in questa stagione, poco chiari sul piano operativo: spero che nel precedente paragrafo, almeno in parte, abbia aiutato i lettori a comprendere meglio la direzione del mio lavoro stagionale e a “fare il punto”.
Un lavoro di ricerca che voglia essere innovativo, implica, in qualsiasi ambito, l’assunzione di una quota variabile d’incertezza; e la direzione della ricerca, sovente, non è evidente al ricercatore stesso: semmai lo è a posteriori.
Possiamo, come settore sportivo, legittimamente reiterare contenuti, rimbalzare notizie, fare cronaca, ma l’apertura di opportunità diverse passa, in modo necessario, dall’assunzione di un “rischio” e da un cambio di passo e di prospettiva.
Diversi anni addietro mi colpì un articolo di Marco Lodoli (scrittore, giornalista ma soprattutto insegnante), titolato I miei ragazzi insidiati dal demone della facilità, dove metteva l’accento sul fatto che facilità e semplicità non sono sinonimi.
Facile è, come dice la parola stessa, qualcosa che può essere fatto (dal lat. facilis, der. di facere, fare); facile è fattibile: qualcosa che un agente esterno può portare a compimento, può fare, e lì si ferma.
Semplice, invece, è un concetto filosofico. Semplice è ciò che dal complesso viene tradotto nell’essenziale e che richiede tempo, impegno, fatica.
Considerando solo il punto di arrivo, i due termini si direbbero equivalenti. Ma se facile è l’effetto di una serie lineare di azioni concrete e successive, semplice lo è di un intreccio che risulta da movimenti complessi e capaci di utilizzare fonti apparentemente caotiche, per condurle a un ordine.
Lo sci alpino come “divertimento difficile”
Il termine “divertimento” significa, etimologicamente, “volgere altrove”, “deviare”, spostare l’attenzione da un luogo a una altro, da un’attività, generalmente di routine, a un’altra (dal lat. de, “allontanamento”, vertere, “volgere”).
Lo sci, ancorché essere inteso come forma di svago, di divertimento nell’accezione anzidetta, è qualcosa che, come sappiamo bene, ci sfida, richiede concentrazione, costanza, abilità di vario genere, ma che a volte non riesce e delude.
Anche nello sport di vertice assistiamo a difficoltà, insuccessi, errori ostinati e tempi di latenza, che richiedono risorse da parte di atleti e staff (resilienza), e capacità di ridefinire finalità, obiettivi, strategie (flessibilità mentale).
Questo è un tipo d’impegno fondamentale per il rafforzamento delle nostre abilità mentali. Abbiamo bisogno di attività ludiche, o ri-creative che generano in noi una sorta di flusso e che definiamo, con Seymour Papert, Hard Fun o divertimento difficile.
Perché “difficile” lo sci alpino è una pratica che:
a) si apprende facendola: quando imparare fa parte di un’esperienza attiva impariamo meglio. Impariamo ancora meglio quando possiamo usare quello che abbiamo appreso per dare vita a qualche cosa che ci appassiona.
b) Si apprende se i nostri obiettivi sono realistici, ma sfidanti. Impariamo e lavoriamo meglio quando quello che stiamo facendo ci piace, ci gratifica, ma questo non vuole dire che debba per forza essere facile: il divertimento migliore è quello che ci mette in difficoltà, che ci sfida e ci stimola ad aumentare le nostre risorse.
c) Si apprende imparando ad imparare; ossia non solo facendosi guidare, lasciandosi istruire, ma prendendo il timone della propria esperienza di apprendimento (apprendimento autodiretto).
c) Si apprende dedicando il giusto tempo, che è quello proprio. I tempi degli altri sono solo orientativi per noi e un caso di apprendimento precoce non è mai, o quasi mai, paradigmatico: ci vuole tempo per imparare! In questo senso è importante gestire bene il proprio tempo e non ci si può aspettare che qualcuno lo gestisca per noi, come spesso siamo abituati a fare a scuola, in famiglia, in molti sci club.
d) Si apprende sbagliando, secondo una vera e propria pedagogia dell’errore: solo sbagliando, facendosi carico degli errori e riflettendo su cosa è accaduto si può andare avanti e migliorare. Per avere successo, dobbiamo concederci la libertà di inciampare, di deludere noi stessi e sovente gli altri, pure se significativi.
È a partire da un quadro generale di questa natura che, nei prossimi appuntamenti, torneremo a focalizzare su tecniche di mental training e su un approccio al coaching mentale intesi non in chiave adattiva, ma generativa; ossia finalizzati a rafforza autonomie, abilità critiche, di elaborazione, che inducono la persona a (ri)costruire la realtà e i significati in cui s’imbatte.
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com