Sci alpino e metodo: il (falso) problema della continuità
“Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli…”
G. Rodari
Premesse: percezioni e linguaggio
Una premessa del nostro lavoro sull’allenamento mentale nello sci alpino, è la seguente: il linguaggio non ha solamente una funzione descrittiva, ma costruttiva.
Questo significa che il modo in cui diciamo le cose, il modo in cui le descriviamo a noi stessi e agli altri, incide significativamente sul nostro modo di percepire la realtà.
Ma il modo in cui ci rappresentiamo o rappresentiamo ad altri le cose, incide – vedremo in che modo – anche sull’evoluzione tecnica e sulla soluzione o meno di problematiche, difficoltà, errori tattici a volte ostinati.
Un’ulteriore premessa riguarda la distinzione tra sensazione, e percezione.
Se la prima indica le informazioni derivate dai sensi, in se stesse “neutre”, la seconda indica l’elaborazione cognitiva delle informazioni stesse, alle quali attribuiamo significato, valore.
Queste premesse, se assunte criticamente, sono per noi, per i nostri atleti, dei veri e propri postulati dell’allenamento mentale, che definiscono il metodo e quindi l’organizzazione dei materiali.
Non esiste, infatti, un vero ordine nel concepire il mentale nello sci alpino, se non a fini didattici e tutto – in qualche modo – ha a che fare con tutto: se inizio parlando di attenzione, ad esempio, non posso non chiamare in causa l’attivazione e se parlo di attivazione, non posso non parlare di motivazione e se parlo di motivazione, ancora, non posso non fare riferimento all’autoefficacia percepita e quindi all’autostima ecc.
Da questa evidenza si deriva il valore relativo di ogni modello, o teoria, riguardanti l’allenamento mentale, se non il valore di tali modelli o teorie in chiave educativa e didattica.
Se non vi sono modelli, teorie, organizzazioni predefinite nel trattare il mentale nello sci alpino – ma, da ultimo, neanche aspetti tecnici, in termini di “progressione” – allora ogni approccio implica un azzeramento delle competenze e un ripensamento del mentale stesso, in termini di priorità, argomenti, relazioni tra parti.
Riteniamo infatti che sia proprio questo elemento, ossia la relazione tra parti, a qualificare le esperienze, e con esse la qualità dell’apprendimento – in fine, l’obiettivo è quello di rendere evidente, cogente, il rapporto tra prestazione e abilità mentali, ossia tra azione efficace in grado di raggiungere scopi (v. articolo precedente: Lo sciatore “intelligente”: sci alpino e agency) e identità.
Sospensione del giudizio e cautela interpretativa
Le premesse da noi evidenziate hanno chiare conseguenze, sul piano del metodo e generano un corollario, delle deduzioni, che possiamo provare ad elencare. È a partire da tali deduzioni che individueremo poi delle parole chiave, che hanno per noi e avranno per i nostri atleti un carattere operativo e una valenza direzionale.
Ricordiamo le premesse, la prima delle quali modulata dalle neuroscienze, la secondo d’impronta costruttivista:
A) c’è distinzione tra sensazione e percezione: la seconda è elaborazione cognitiva di un’informazione in se stessa “neutra”, sul piano valoriale;
B) il linguaggio non ha solamente una funzione descrittiva, ma costruttiva – nel nostro caso, sia in senso identitario, che nelle potenzialità del linguaggio stesso di aprire finestre di senso che risolvono problemi, o li collocano diversamente, ossia permettono all’atleta di sostare in essi (di “abitare” un problema) in modo differente.
Corollario:
a) la nostra percezione dei fatti, il modo che abbiamo di raccontarli a noi stessi e agli altri, può risultare ingannevole e alimentare una “falsa percezione” di sé, sia in termini di risorse che di difficoltà;
b) la nostra interpretazione dei fatti ha un significato, un valore, sempre e comunque relativo e dinamico: la nostra interpretazione dei fatti, o il modo che abbiamo, come tecnici, di porgere contenuti, è sempre e comunque “per approssimazione”, asintotica;
c) del pari, gli aspetti prestativi, entro ma al di là dei risultati oggettivi, possono non corrispondere alla nostra percezione, sia “per difetto” che “per eccesso”;
d) il fare propri alcuni costrutti, alcune rappresentazioni mentali, costringe la crescita personale – e con essa il talento – in zone perimetrali che potrebbero bene non essere quelle dell’atleta e quindi agire, al di là dei parziali benefici, forme di sabotaggio più o meno evidenti;
e) una cautela interpretativa, una sospensione del giudizio, una centratura sul compito, un silenzio vigile, il focus sulle “sentire” (feel) e l’ancoraggio positivo al gesto tecnico, l’assunzione dei tempi di latenza e simili, sono abilità strategiche che caratterizzano, o dovrebbero caratterizzare, sia il dialogo interiore dell’atleta, l’introspezione, che quello esteriore; ma dovrebbero caratterizzare, pure, la relazione dell’allenatore con il suo atleta.
Dinamiche operative
Sul piano pratico le nostre deduzioni:
1) ci mettono in guardia da quello che pensiamo e diciamo, dalle nostre interpretazioni, e ci inducono quindi a relativizzare quello che sappiamo, tornando sempre e nuovamente a rileggere le acquisizioni, convinzioni, modelli, riformulandone i contenuti;
2) ci permettono di interpretare quello che gli altri dicono – quello che l’atleta dice, se tecnici, o quello che il tecnico dice, se atleti – non a fini meramente analitici, ma secondo un approccio critico-costruttivo finalizzato alla crescita globale dell’atleta;
3) ci permettono di capire meglio la relativa funzionalità o la non funzionalità, per uno sport come lo sci alpino, che sappiamo essere uno sport soggetto ad infinite variabili, di elementi tecnici “impiantati” o di teorie, modelli, tecniche di gestione e controllo (!?) emotivo.
Da questa prospettiva non ci interessa quanto l’atleta sia “vincente” (può bene esserlo, vincente, ed avere però irrisolti e forme di auto-sabotaggio che ne limitano le potenzialità), ma il suo percorso di crescita attale, sia professionale che umano: il processo eccede la prestazione, così come la prestazione eccede il risultato. Il risultato è una conseguenza dell’efficienza prestativa, che a sua volta implica una chiara percezione di sé e comporta relazione tra parti, anche dissonanti, integrazione e non controllo.
Se dovessimo rappresentare questo processo di crescita dell’atleta, che è cognitivo ed emotivo a un tempo, lo vedremmo passare dal pensiero alla parola, dalla parola all’azione, dall’azione all’abitudine (quello che fa, in termini di coerenza e pertinenza, diviene habitus, prassi), dall’abitudine ad una più chiara ed integrata percezione di sé, da questa percezione a quella che nel precedente artico abbiamo chiamato azione intelligente. Azione che comporta – oltre l’automatismo – il recupero di spazi ulteriori di pensabilità positiva, di generatività e innovazione, di visione e decisionalità strategica.
Non esistono soluzioni rapide a difficoltà prestative ostinate. Tanto meno esistono, a fronte di un talento manifesto, soluzioni rapide all’assenza o alla discontinuità di risultati; ma esiste invece la possibilità di generare relazioni positive tra parti di sé e vissuti dissonanti, e la possibilità di fare integrazione.
La tecnica va implementata in modo parallelo alle fasi di sviluppo globale dell’atleta, e ogni progresso, sul piano prestativo, poggia sulla sensazione interna dell’atleta di sentirsi capace o, come si dice in gergo, in fiducia: è questo il vero capitale dell’atleta e se miniamo questa percezione, tutto si complica enormemente.
La difficoltà della consistenza, della continuità, può essere gestita solo cambiando l’angolo visuale e identificando, accettandolo, il livello di performance attuale del nostro atleta; ossia a quale intensità esecutiva, in determinate situazioni o contesto, egli possa funzionare correttamente, essere affidabile.
L’affidabilità produce fiducia, che a sua volta produce consistenza, continuità.
Il fine di questo cambio di prospettiva è di enorme importanza, ed è quello di collegare il livello tecnico reale, con la decisione tattica che questa tecnica consente all’atleta.
La cosa evidente è che, se lo fa, se accetta la sua realtà ed esce dal novero degli “inseguitori”, l’esecuzione del gesto atletico si assesta, si (auto)regola, trova la sua compostezza, e indirettamente si struttura diversamente, si inspessisce e acquista robustezza.
Le nostre parole chiave sono dunque relazione, integrazione, sospensione [del giudizio etero o auto-indotto], introspezione, latenza, proprio perché convinti – come detto – che il processo, la crescita personale e la tutela dell’atleta siano non solo prioritari rispetto al risultato, ma propedeutici ad esso.
Le difficoltà, le fragilità, la prodizione di errori, il senso di inadeguatezza, vanno ricondotti entro un ambito di normalità. Vanno “normalizzati” e trattati alla stregua di fattori tecnici: la via al risultato, passa appunto, necessariamente, da difficoltà, confusione, produzione di errori, incertezze personali, momenti di stallo e finanche regressione.
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com