L’allenatore di sci alpino come “facilitatore di processo”
Premessa: l’apprendimento generativo
Come educatori o formatori il nostro agire è un agire intenzionale, cioè a dire organizzato, orientato a facilitare un processo (quello d’apprendimento) e che mira allo sviluppo di un potere d’azione o Agency.
In questo senso, avere ben chiara la differenza tra un approccio adattivo, cioè finalizzato a colmare un divario, a riparare un mal funzionamento, e apprendimento generativo, è per noi di fondamentale importanza.
Mentre l’apprendimento adattivo per molti versi riduce la portata del cambiamento in modo da rendere l’individuo più facilmente integrato e riduce la spinta costruttiva del soggetto, i suoi gradi di libertà per semplificare il suo rapporto con l’ambiente, l’apprendimento generativo rafforza abilità critiche, di elaborazione, che inducono la persona a ri-costruire la realtà con cui s’imbatte.
Se la domanda sottesa all’apprendimento adattivo è: come si fa? E la risposta: si fa così… l’interrogativo che guida l’apprendimento generativo è: di cosa si tratta? Cercando nel reale la risposta anche operativa. (cfr. S. Gheno, La formazione generativa. Un nuovo approccio all’apprendimento e al benessere delle persone e delle organizzazioni, 2010)
Teoria e prassi
Come per i contesti socio-culturali ed educativi, l’ambiente sportivo, con le sue molte contraddizioni, impone una svolta al settore e una ridefinizioni delle competenze professionali.
Se accogliamo il postulato che non esistono “prassi neutrali” e che ancora a monte di qualsiasi azione educativa troviamo una particolare antropologia, una concezione dell’uomo dalla quale discende una certa ipotesi d’intervento (Gheno), abbiamo: da un lato un professionista inteso come solutore di problemi (la persona in apprendimento o l’atleta portano un problema, che il tecnico dovrà risolvere), dall’altro un professionista orientatore, o facilitatore, o mediatore, che agisce nella convinzione forte circa la necessità che sia la persona a dover essere protagonista della propria crescita
Non esiste una nozione astratta di “tecnico dello sport”, ma ognuno di noi è quello che fa: l’educazione, l’allenamento, la formazione, l’orientamento, sono cose che si fanno – più sensato sarebbe dire non faccio l’allenatore, o sono un allenatore, ma agisco da allenatore, o agisco comportamenti (in qualche modo, sotto alcuni aspetti, per alcune componenti) allenanti.
Se l’educazione e la formazione sono “cose che si fanno”, ogni riferimento linguistico, ogni modo di relazione, ogni narrazione di sé ad altri, dice delle convinzioni e del background di conoscenze, competenze, esperienze, valori acquisiti.
Il linguaggio, lo ricordiamo, non ha una funzione meramente descrittiva, ma costruttiva e contribuisce, in modo sostanziale, a definire il piano delle nostre scelte, dei nostri comportamenti, delle nostre azioni, anche e soprattutto di carattere educativo.
Modelli e target
Se un allenatore dice che: i giovani devono divertirsi e devono fare esperienza, il risultato è secondario; oppure dice che: a me importa che funzionino in pista e dato che fanno attività agonistica, voglio che sviluppino da subito attitudine alla competizione; oppure ancora: il risultato è subordinato al processo di crescita, per cui al momento è sufficiente che impari a sciare, penseremo dopo al risultato; o anche: è uno sport faticoso, costoso per i genitori, dove la logistica è complicata, per cui non voglio che perdano tempo e dobbiamo ottimizzare!
Le precedenti sono tutte affermazioni sensate, e allo stesso tempo relative e dicono di una volontà, di una motivazione, che non ha nulla a che vedere con quella dell’atleta o del gruppo – data la rilevanza che nel nostro discorso diamo alla dimensione gruppale e di squadra, come volano per la crescita dei singoli.
Non voglio dire che si debba andare verso una individualizzazione estrema delle proposte, impossibile da realizzare, sul piano logistico, ma affermo che organizzazioni diverse dovrebbero proporre orientamenti diversi, fornendo risposte qualificate – in un contesto comunque agonistico – ad esigenze e target diversi.
Non ha meno valore una proposta a valenza educativa e partecipativa, piuttosto che prestativa, stante la difficoltà, più volte studiata e sperimentata, di coordinare all’interno di un’unica organizzazioni progetti che variano su molti piani, in primo luogo su quello dell’intensità.
L’allenatore di sci alpino come “facilitatore di processo”
Approcci diversi divergono su come il formatore, il tecnico, debbano esercitare questa particolarissima forma di potere; che vede ai due estremi il tecnico come “maestro”, portatore di un sapere formalizzato, piuttosto che come “pari” (ad esempio nelle élite), dove è mediatore della ri-costruzione soggettiva di alcuni fatti che qualificano la prestazione.
In ogni caso l’azione del tecnico di sci alpino non può prescindere dalla trasmissione di cose che abbiano significato per la persona in apprendimento.
In assenza di questa significazione soggettiva l’apprendimento non è riconosciuto come fattore di sviluppo personale, ma come tentativo di adattamento funzionale, come tentativo di rispondere ad una disfunzionalità: Il cambiamento inevitabilmente produce inadeguatezza nella persona, che deve “imparare” come farvi fronte. (Cfr. S. Gheno, La formazione generativa., cit.).
È evidente, da quanto detto, che il tecnico di sci alpino non è un tecnocrate, ossia un soggetto la cui credibilità professionale risiede prevalentemente in una competenza di natura tecnica.
Rispetto alle competenze tecnico-specialistiche, risultano da rafforzare quelle comunicative, relazionali, del lavoro in team (team building “positivo”), e quelle che si allontanano da un lavoro “per procedure”, per diventare un lavoro “per processi”.
Ossia quelle che si allontanano da azioni da compiere (il si fa così… della nostra domanda d’apertura), e lasciano alla persona spazi di autonomia, finanche di errore e di responsabilità.
Se le procedure identificano le cose da fare e ci dicono come farlo, con i processi sono le persone a selezionare, eventualmente, quali procedure seguire.
In ambiente pedagogico chiamiamo questo modello Process-Learning, facendo riferimento a quegli approcci che, cercando di superare la logica causativa, vanno ad analizzare i processi messi in atto dal soggetto.
Rispetto ai modelli tradizionali è valorizzato l’apporto di colui che apprende, che costruisce le conoscenze, e l’insegnamento diviene azione indiretta, volta a creare le condizioni che predispongano l’apprendimento.
In questa chiave il tecnico di sci alpino è un professionista che presidia il processo, e – come detto – a seconda dei target e dei casi, lo facilita, lo orienta, lo media e ne tutela, nel rispetto delle differenze, gli spazi di scelta e di libertà.
Conclusione: dal problema alla persona
L’approccio abbozzato differisce, sul piano della relazione e del metodo, da quelli maggiormente diffusi, e si prefigge finalità diverse. Esso, infatti, mira ad una maggiore autonomia e integrazione della persona-atleta, piuttosto che all’aspettativa di risolvere un determinato problema con l’aiuto o la mediazione del tecnico.
Punto focale, quindi, è la persona e non il problema. Lo scopo non è quello di risolvere un problema particolare, seppure evidente o persistente, ma di favorire il processo di crescita della persona stessa, perché possa affrontare sia il problema attuale, che quelli successivi, in modo integrato; ossia attraverso risposte organizzate, e non casuali o demandate.
Questo approccio ha chiare conseguenze politiche e di sistema, perché ridefinisce le dinamiche di potere e controllo, restituendo alla persona in apprendimento spazi di pensiero, parola, azione, responsabilità.
Un professionista che non sente alcun bisogno di avere un “potere su”, ma che desidera invece agevolare e incoraggiare la forza latente dell’altro: a) andrebbe a recuperare una centratura relazionale, ma anche pedagogica (quindi un metodo), diversa dall’attuale; b) andrebbe a relativizzare analisi di giudizio, conferendo all’individuo maggiore autonomia e spessore: le persone, in genere, possono più di quanto pensiamo; c) si accorgerebbe che il modello prevalente di formazione dei giovani è un modello addestrativo, e che i tecnici che riescono ad innescare processi virtuosi di integrazione non necessariamente provengono da gruppi professionalmente elitari; d) si accorgerebbe che a una maggiore centratura sulla persona, corrisponde una messa in discussione dei modelli gerarchici e organizzativi; e) che l’effettiva realizzazione di questo approccio, come già evidenziava Carl R. Rogers (cfr. Potere personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario, Astrolabio, 1978), costituisce una sostanziale minaccia per chi detiene quote di potere, e si tenta – coscientemente o meno – di marginalizzare chi intendesse attuarlo, o in alcuni casi di distruggerlo (sic).
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com