Il mental coaching negli sci club, nei progetti federali e in ambiente formativo, tra autoreferenzialità e aperture: una ricerca del FVG
Riproponiamo online, per la sua rilevanza e perché oggetto di specifiche richieste da parte di un gruppo di lettori, un articolo apparso la scorsa stagione sul nostro magazine in formato cartaceo (n. 45, 15/03/2022).
L’articolo è stato rivisto dall’Autore e implementato in alcune parti, proprio in virtù di questa nuova edizione.
Ringraziamo i lettori per l’attenzione a contenuti sovente ritenuti “di nicchia”, ma che invece – ci accorgiamo – stimolano la riflessione, il confronto; e testimoniano la necessità di ripensare il mentale nello sci alpino, rinnovando metodologia e prassi.
La Redazione
Premessa
In questi ultimi anni ho avuto modo, svolgendo attività educativa con le categorie giovanili, di incontrare allenatori di sci alpino di età e formazione diversa, di diverse aree geografiche, di genere diverso e con esperienza più o meno ampia in contesti, categorie, circuiti diversi.
Facendo il mio lavoro sul campo, cioè a dire nei luoghi dove in genere questi professionisti svolgono il loro lavoro, ovvero luoghi innevati, ho inoltre avuto modo di intessere conoscenze, qualche amicizia e di scambiare idee, raccogliendo bisogni, ma anche aspirazioni da quel mondo.
Ho una grande stima per questi professionisti, che ho imparato a conoscere nelle levatacce mattutine, nelle code interminabili dei ghiacciai, nelle condizioni improbabili d’allenamento dovute al meteo, nel lavoro che non finisce mai (si rientra, si fanno gli sci, si fa video, preparazione atletica ecc.) e che riconosco essere di una generosità, nel lavoro con i giovani, che non ha eguali in ambito educativo.
Chiaramente sono stato interpellato sul senso della mia presenza in quei contesti e sul senso del mio lavoro, genericamente inteso come mental coaching; a mia volta ho provato a dare qualche spiegazione e risposta, a precisare meglio la mia funzione e a creare scambi e sinergie professionali con singoli professionisti, società, comitati.
L’idea che mi sono fatto di questo mondo, assolutamente provvisoria, è che ci sia una certa contraddittorietà interna sul significato e sul valore del lavoro mentale: da un lato si riconosce e si afferma diffusamente che la testa “fa la differenza” da un certo livello in poi (si tratta poi di definire quale sia il livello), dall’altro, allenatori e dirigenti, sono in evidente difficoltà nell’adoperarsi per passare dalle intenzioni alla pratica e per fare spazio a una progettualità concreta.
Attestata la stima per questa categoria di professionisti, è per me importante riconoscere loro, nel senso anzidetto, una responsabilità diretta nelle frequenti difficoltà prestative degli atleti seguiti. Difficoltà che, va sottolineato, sono sia di rendimento che emotive – essendo, come evidente, per il giovane atleta, fonte di disagio personale il divario tra prestazione reale e prestazione potenziale.
È infatti il caso più frequente quello di allenatori che mi avvicinano in pista o fuori e mi chiedono un parere su un loro atleta dotato, capace in allenamento, che però in gara non riesce ad esprimersi e perde ogni riferimento tecnico positivo.
Tendenzialmente do ascolto, provo a dare letture in genere riconosciute come valide, a volte incontro il giovane atleta, fornisco indicazioni, materiali, spunti di lavoro, ma da ultimo non riscontro un reale impegno del tecnico (e con lui dell’atleta) ad adoperarsi perché il problema sia concretamente affrontato, se non risolto.
La domanda: cosa rende così difficile, nello sci alpino in genere e nelle categorie giovanili in particolare, il passaggio da un’intenzionalità manifesta (si riconosce che la parte mentale, motivazionale, caratteriale, anche in un giovane, “fa la differenza”) ad azioni concrete?
Cosa rende così difficile, anche per noi educatori, o coach, o psicologi dello sport, comunicare in modo efficace il senso del nostro lavoro? Che sarebbe sbagliato circoscrivere all’ottimizzazione della prestazione sportiva (semmai questo obiettivo può riguardare il professionismo, ma sarebbe comunque riduttivo), ma che va invece esteso alla crescita globale e al benessere del giovane atleta.
Certamente i messaggi che passano oggi sui social sul coaching mentale in ambiente sportivo (ma anche aziendale, o sul life coaching) sono fuorvianti e lasciano credere che questi approcci, queste tecniche, siano la soluzione ai problemi prestativi d’un atleta, piuttosto che di un dirigente, o di una persona comune che affronta, come sa e può, i problemi della vita.
A scanso d’equivoci: non è così! E non ci sono scorciatoie alla crescita personale e umana.
La crescita nello sport, necessariamente, passa da una buona conoscenza di sé, dal saper riconoscere e accogliere le proprie fragilità e dal saper valorizzare – cosa affatto semplice – le proprie qualità, i così detti “punti di forza”.
Condivido l’affermazione di Giuseppe Vercelli, secondo il quale è più utile lavorare sui processi interni dell’atleta, sulla sua identità, che su tecniche specifiche finalizzate a sviluppare abilità particolari; partendo dall’ipotesi costruttivista che l’identità personale è costruita attivamente dal soggetto stesso.
Sci alpino e allenamento mentale
Cambiamo a questo punto registro e cerchiamo di capire cos’è che non ha funzionato, o ha funzionato parzialmente, in ambito federale, nei rapporti tra la pratica dello sci alpino e il mental coaching.
Questa domanda va posta in primo luogo in termini di formazione di maestri di sci e allenatori, ma anche di istruttori nazionali, poi in termini di alfabetizzazione delle categoria giovanili nei club e ancora, successivamente, nel passaggio dalle categorie giovanili alle squadre nazionali (progetto Osservati) e al professionismo.
La domanda perché un allenatore o un dirigente sportivo deve interessarsi a questo ragionamento? Perché dovrebbe valorizzare la possibilità di inserire nello staff tecnico un mental coach? O perché dovrebbe (in)formarsi sulla portata educativa del suo lavoro di allenatore? È una domanda a mio avviso sbagliata, che io mi sono posto, ma che invece non ha senso porsi.
Non sono io a dover convincere qualcuno di qualcosa, ma, come detto sopra, è responsabilità del singolo allenatore valutare quello che fa, come lo fa e i limiti (assolutamente naturali e legittimi!) del suo intervento formativo; esteso, come evidente, ad aspetti che investono la relazione, la comunicazione, la gestione delle regole, il gruppo, le peculiarità dei singoli, la sfera cognitiva e quella emotiva, e altri ancora.
Altra domanda: è possibile, in chiave federale e nelle nazionali, assumere una linea secondo la quale il supporto mentale è utilizzato solamente su base discrezionale (è l’atleta a richiederlo), o là dove si è di fronte a difficoltà manifeste, non diversamente risolvibili, sul piano dei comportamenti e su quello prestazionale?
Ho già risposto negativamente a questa domanda, in un articolo, al quale rimando, titolato: Il mental coaching in ambiente FISI: questioni aperte e prospettive. L’articolo sarà raccolto insieme ad altri in una pubblicazione, titolata Lo sci alpino, tra vocazione educativa e tensione agonistica, della quale daremo presto notizia.
Porto avanti questo programma, questo lavoro di sperimentazione, ormai da vari anni; l’idea guida è che un giovane debba necessariamente arrivare al professionismo con una “cassetta degli attrezzi” ben fornita, ovvero con conoscenze e competenze (su sé, l’altro da sé, il contesto, la relazione) ben strutturate e di ampia portata.
Mi è difficile pensare che tappe quali l’Imparare ad allenarsi, l’Allenarsi all’allenamento, l’Allenarsi a competere e a maggior ragione l’Allenarsi a vincere – tutte tappe previste dal modello SALT della FISI-STF – possano essere raggiunte e gestite senza un bagaglio che, oltre alla preparazione specifica e a quella atletica, non abbia previsto una preparazione mentale non sporadica o discrezionale, ma sistematica.
Pensare che soltanto l’atleta che mostra determinate difficoltà ad esprimersi sul piani prestazionale, sia esso professionista o meno, possa trarre giovamento da un lavoro di tipo introspettivo, piuttosto che da un lavoro di analisi e di verbalizzazione con una figura terza rispetto a quella dell’allenatore (il mental coach), è come dire, per eccesso, che soltanto un atleta poco strutturato fisicamente possa trarre beneficio dalla preparazione atletica! Cosa che nessun allenatore o dirigente, immagino, si sognerebbe di dire.
Finalità e obiettivi
Quando parlo di alfabetizzazione, dico che già la conoscenza analitica di alcuni termini, di alcuni aspetti che caratterizzano il mentale, induce (in modo irriflesso) dei cambiamenti strutturali nella personalità e nelle caratteristiche del giovane atleta; cambiamenti che, in qualche modo, creano i presupposti psico-fisici e caratteriali del futuro professionista.
Chiudo questa parte del mio ragionamento ricordando al lettore che il lavoro dell’allenatore, come quello del mental coach (pur se per vie diverse), ha il fine precipuo di allineare la prestazione reale con quella potenziale; ma nello stesso tempo ha il fine, in specie nello sport di base e nelle categorie giovanili, di formare la persona-atleta non solo all’attività professionistica, ma in generale alla vita.
Infatti, non tutti i ragazzi che approdano all’agonismo vi approdano con gli stessi obiettivi e molti di loro (come accade in altri ambienti) arrivano negli sci club da vicende personali e familiari complesse: in questi casi, come evidente, va detto a chiare lettere, l’obiettivo agonistico è secondario rispetto ad altri obiettivi di crescita.
Non va dimenticato che gli sci club, sono nella maggior parte dei casi associazioni o a volte cooperative, ovvero enti di Terzo Settore, cioè organismi “a vocazione sociale”. Come tali, quindi (e in virtù di una serie di agevolazioni anche fiscali), chiamati a svolgere, a fianco delle altre agenzie educative (scuola, famiglia, aggregazioni ecc.), una determinata funzione sociale, che esubera il solo ambito dello sport.
In questo senso e sostenuto da una serie di argomentazioni credo largamente condivisibili e difficilmente opinabili, mi sembra ci sia molto da fare negli ambienti federali (non solo in FISI) e credo vadano riconsiderati, in virtù delle ultime cose dette e del ruolo delle realtà associative sportive, mission e vision di questo mondo; ovvero valori, obiettivi, allocazione delle risorse, professionalità e metodi.
Trasferibilità di un modello di studio e ricerca
Concludo questo articolo riportando i dati derivati da un progetto del 2014 svolto in Friuli Venezia Giulia – indico per inciso che il maggior numero di contributi reperibili online, sia di tipo informativo, che formativo, viene da questa Regione, “piccola” in termini di numeri, ma che evidentemente ha investito in studio, formazione, ricerca,
La ricerca, titolata “Psicologia sportiva nello sci del FVG” https://docplayer.it/111312182-1-la-psicologia-per-atleti-sciatori.html, pur se datata, presenta un quadro che trovo essere ad oggi ancora attuale e non difforme dalla mia lettura, riportando risultati derivati da un questionario indirizzato alle società sportive.
L’obiettivo dello studio è quello di capire quanto sia conosciuta e accettata la psicologia dello sport nella regione del Friuli Venezia Giulia, e che percezione ne abbiano le associazioni sportive.
Il limite, a mio avviso, è che le associazioni sono intese limitatamente alla figura dei dirigenti sportivi (altro importante target da raggiungere, sensibilizzare al tema e formare), mancando la voce degli allenatori di sci alpino.
Per raccogliere le idee e i bisogni del target è stato creato un questionario con risposte chiuse a scelta multipla, con una domanda conclusiva a risposta aperta.
L’analisi delle risposte date dalle società mostra che la psicologia sportiva è rimasta lontana dal mondo dello sci alpino della Regione, ed emerge comunque un desiderio generale di introdurre questo nuovo servizio di supporto per atleti ed allenatori.
La maggior parte delle risposte aperte, comunque, si focalizza nella ricerca sul problema della formazione: in queste righe traspare un interesse complessivo per la psicologia dello sport ed un malcontento generale per la preparazione specifica degli allenatori. Le soluzioni sarebbero molte, ma il problema principale sembra essere di ordine economico.
I nodi fondamentali di un progetto federale regionale che vada in questa direzione sono tre e riguardano, oltre al fattore economico (per altro, a mio avviso, facilmente risolvibile con quota parte delle associazioni afferenti):
– incontri formativi per allenatori e dirigenti,
– incontri con atleti e allenamento mentale specifico (quella che io chiamo “alfabetizzazione”),
– individuazione delle figure professionali adatte ad erogare questo servizio e a svolgere la formazione.
Concordo con il fatto che lo psicologo clinico o quello dello sport (afferente comunque, come professionista, al settore sanitario), non sono, necessariamente, le figure meglio profilate per lavorare in ambiente sportivo.
Trovo che il limite della ricerca sia quello di intendere la psicologia dello sport come un insieme di tecniche finalizzate all’ottimizzazione della prestazione agonistica (cosa pure importante, in specie nello sci di vertice, ma secondaria a mio modo d’intendere) e non come strumento di crescita personale globale della persona-atleta.
Ancora una volta, credo che la proposta difetti sul piano educativo, ovvero non ponga al centro la persona, o la persona-atleta, intesa in senso relazionale-sociale (lo sci è un’azione “di contesto”), ma solo l’atleta.
La ricerca mette come primo punto del programma di allenamento specifico, la raccolta di dati anamnestici e la somministrazione di questionari sulle abilità mentali, con schede, griglie, colloqui preliminari…
Non misconosco questo lavoro di osservazione, conoscenza, analisi (utilizzo strumenti di questo genere, seppure adattati), ma sottolineo ancora una volta l’impostazione “scientista” di un lavoro che, negli sci club, è più prossimo alla dimensione educativa, o socio-educativa che sanitaria!
Non entro nel dettaglio dei punti di convergenza e di divergenza dei due approcci, sul piano del metodo, e mi limito a circoscrivere questa distorsione interpretativa, riservandomi in interventi futuri di analizzare meglio i punti di convergenza e di divergenza (ma anche l’assoluta ricchezza e complementarietà) dei due ambiti; dove un lavoro di carattere educativo precede, accompagna e segue l’acquisizione di strumenti e tecniche finalizzate, nello sci alpino, all’ottimizzazione della prestazione agonistica.
Allenatore, mental coach o psicologo della prestazione, trainer educativo, sono figure complementari che se aggregate nel lavoro di ricerca (in FISI la STF potrebbe assolvere a questo importante compito, creando equipe interdisciplinari) e nella formazione delle categorie giovanili, hanno potenzialità enormi di analisi e ridefinizione del fenomeno sportivo; ma anche e soprattutto di analisi e ridefinizione dei modelli di riferimento, sia per quanto riguarda le metodiche d’allenamento che le strategie di gara.
Enrico Clementi enricoclementi017@gmail.com